Intervista con Francesco Cito

Ripubblichiamo in questi spazi una conversazione che il reporter Francesco Cito ha avuto con il giornalista Enrico Ratto, e già pubblicata sul sito di Maledetti Fotografi (http://www.maledettifotografi.it) CI fa piacere riproporla per celebrare orgogliosamente l’inizio di una stretta collaborazione che Cito ha voluto iniziare con EyesOpen! Magazine. Dal numero di marzo potrete leggere i suoi contributi giornalistici sulle nostre pagine cartacee.

 

Francesco Cito: il fotogiornalismo non ha fallito
di Enrico Ratto –  

http://maledettifotografi.it/interviste/francesco-cito/

Francesco Cito, qualche anno fa a Perpignan Don McCullin ha detto noi reporter di guerra abbiamo fallito, non siamo riusciti a cambiare niente.

Non è vero. Forse è così nel presente, ma nel passato il fotogiornalismo ha avuto una sua forte valenza. La strage di Mỹ Lai in Vietnam è stata conosciuta dall’opinione pubblica americana grazie al lavoro dei fotogiornalisti. Eugene Smith, con il suo lavoro su Minamata, ha portato alla luce i versamenti inquinanti nelle acque di quei territori. Ci sono decine di esempi.
Probabilmente il fotogiornalismo è diventato ininfluente oggi perché i media hanno smesso di fare informazione, soprattutto una certa carta stampata.
Non ci sono più i contenitori, ma i fotogiornalisti continuano ad esserci, solo che fotografano storie che non trovano poi spazio sui giornali.

Manca il committente?

Chi ha fallito è l’editoria, non il fotogiornalismo.

L’editoria in generale o l’editoria italiana?

L’editoria italiana non ha mai avuto voce in capitolo in termini internazionali. In Italia la figura del fotografo non è mai stata considerata, quando andavo in giro con un giornalista, il più delle volte io ero il suo fotografo, e, non il collega fotogiornalista.

Oggi però i fotogiornalisti italiani sono tra i più interessanti al mondo.

Sì, ma non esiste una scuola italiana, non esistono università in cui si studia fotogiornalismo come negli Stati Uniti o in altri paesi all’avanguardia. Non sono i giornali italiani, soprattutto oggi, addetti alla formazione delle nuove leve, e nel passato l’unica scuola di fotogiornalismo italiana, è stata quella dei paparazzi a Roma, anche se vilipesa, ha creato un genere, poi ripreso a livello internazionale, come cronaca leggera, o meglio rosa.
Molti fotogiornalisti italiani non si sono formati in Italia, Romano Cagnoni si è formato in Inghilterra, come pure io, o anche Mitideri e altri. Gli Alex Majoli, i Paolo Pellegrin, si sono formati in Magnum, lavorando per la stampa americana e anche quelli cresciuti in Italia, in Contrasto, come Francesco Zizola, Luigi Baldelli e  altri, sono cresciuti avendo sempre uno sguardo sull’estero.

Siamo a Pietrasanta e hai appena inaugurato la HYPERLINK “http://www.seravezzafotografia.it/fotografi/francesco-cito-17.html” \n _blank tua mostra a Seravezza Fotografia. I fotoreporter espongono i loro lavori più completi nelle mostre anziché pubblicarli sui giornali.

Io parto dal presupposto che se faccio un lavoro giornalistico, lo faccio prima di tutto per me stesso, vedere con i miei occhi ciò che accade, conoscere delle verità che non siano quelle raccontate da altri, e questo lo si capisce stando sul posto. A quel punto potrei anche non fotografare, ma essendo la fotografia il mio lavoro, fotografo a che la storia che realizzo sia divulgata attraverso i media, in particolare sulle pagine dei settimanali con cui mi sono sempre rapportato, anche se poi utilizzano solo cinque o dieci foto, che da sole non raccontano tutto il lavoro.
È anche alla bravura del fotografo sintetizzare tutto in poche immagini.
Quando fai una mostra o un libro fotografico, allora lì metti in luce tutto quello che è stato realizzato e non mostrato.
Io personalmente, preferisco vedere le mie foto su un giornale, più che altro per un motivo di diffusione: se pubblico su una rivista ho la consapevolezza che quel lavoro verrà visto da qualche migliaia di persone, se faccio una mostra da qualche centinaia di persone, se faccio un libro da qualche decina di persone.
Il libro, comunque, è ciò che alla fine rimane, è una testimonianza che va al di là del tempo.

Quando un’immagine viene isolata, stampata ed esposta in una mostra, fa ancora parte del lavoro di reportage?

Dipende. La fotografia di Steve McCurry che è diventata un’icona della fotografia, “La ragazza afgana”, non posso considerarla fotogiornalismo, non racconta una verità. Faceva parte di una storia vista con gli occhi americani. Se uno conosce abbastanza profondamente la realtà afgana, si accorge che in quel contesto non è rara una ragazza con gli occhi verdi, che gli afgani non sono arabi, che solo nell’immaginario americano la ragazza con gli occhi verdi in Afghanistan è un’ essere unico, oppure raro e può diventare un’icona.

Esiste un solo tipo di fotogiornalismo?

No. Innanzitutto dipende dal paese a cui proponi il lavoro. Un giornale francese, uno inglese e uno italiano utilizzano le stesse fotografie in un modo molto diverso. Nella fotografia, a differenza per esempio della scrittura, la storia può cambiare completamente. Il mio lavoro sulla mattanza del tonno in Sicilia è stato raccontato in Inghilterra partendo dal marinaio sulla barca che ricorda un personaggio da “Il vecchio e il mare”.
Quando l’ha pubblicata Epoca sono andati subito sul sensazionalismo, hanno aperto con il mare rosso di sangue intorno alla barca. Diventano due storie diverse.

Tu puoi intervenire?

Purtroppo no, almeno in Italia. Non sono più scelte mie. La mia scelta è quella di selezionare le foto partendo da un mio racconto, poi questo può essere più o meno rispettato.

Costruisci la storia mentre fotografi o durante l’editing?

Ho imparato in Inghilterra che si deve prima di tutto avere un’idea sulla  la foto di apertura. La foto di apertura di un lavoro fotogiornalistico significa molto, deve darti l’idea immediata di ciò che stai raccontando, è come l’attacco del testo.
Più in generale, la storia si costruisce prima di partire, i giornali richiedono questo. Quando in Inghilterra ho proposto un lavoro sulla camorra, dopo essere ritornato dal Libano della guerra civile, e dopo aver letto le cronache italiane, mi accorgevo che a Napoli, nelle faide di camorra, in una guerra non dichiarata, c’erano più morti che a Beirut. Allora proposi al Sunday Times di fare una storia sulla mafia e la risposta fu: Cito come mi fotografi la mafia, in che modo, se non è mai stata fotografata? Io risposi: sinceramente non lo so, se non vado sul posto non lo so.
Il lavoro mi fu negato, ma sono partito lo stesso, rischiando di mio.
Ho incominciato a scavare ed è venuta fuori la storia, una delle migliori da me realizzate.

Quando segui progetti di lungo periodo ti capita di cambiare idea e punto di vista?

Quando ho iniziato il lavoro sul Palio di Siena, in un primo momento non ne conoscevo gli aspetti più profondi. Poi, in loco, ho cominciato a capire aspetti per me nuovi, da indurmi a raccontare il Palio e mostrarlo solo attraverso il racconto di una contrada.
Tuttavia mi è capitato di partire per fare una storia e di tornare con un’altra storia, perché probabilmente quella storia che mi era stata assegnata, nella realtà non esisteva, o le informazioni ricevute erano distorte, come quando inviato in Niger da Panorama, avrei dovuto  raccontare del traffico clandestino di uranio verso l’Iraq. Ma questo traffico non esisteva affatto.

È da questo servizio che è nata la seconda guerra del Golfo.

Non lo definisco un servizio, lo definisco una vigliaccata, per strani interessi dell’allora direttore di Panorama che ricevette documenti così detti segreti, in cui si formulava  questo contrabbando, e lui anziché verificare con un’inchiesta se la storia fosse vera o meno, inviò i documenti ritenuti segreti, all’ambasciata americana a Roma. Il direttore di un giornale ha il dovere di verificare se la storia è vera, come nel Watergate di Nixon memoria,  oppure manda i documenti alla magistratura, e non ad una ambasciata straniera. I non conoscevo l’antefatto, altrimenti non sarei mai partito, anche se appena conosciuto il contenuto, avevo asserito che fosse una bufala. Arrivato in Niger ne ho avuto subito conferma, ma non sono rientrato a mani vuote, ho scavato e realizzato una storia sulla penetrazione del fondamentalismo islamico nel cuore dell’Africa nera, e oggi ne stiamo vedendo le conseguenze.
Peccato che poi quei documenti fasulli, sono stati impugnati dall’allora presidente americano George W. Bush, per muovere guerra contro l’Iraq di Saddam.

Il fotogiornalista deve credere alla storia che racconta?

Sì, se non ti interessa solo il lavoro e il guadagno. Io sono sempre stato dell’avviso che chi produce informazione emette dei giudizi, li propone e altri devono poter analizzare e capire. Se fai il fotogiornalista analizzi cose che interessano prima di tutto te stesso, a prescindere da come ti vengono proposte dalle redazioni.
Quando sono andato a documentare la prima guerra del Golfo, non avevo alternative se non stare insieme allo esercito americano, anche se, per raccontare quella storia, avrei preferito   farlo dal lato degli iracheni, ma questi non consentivano accesso ai media internazionali.
Ciò nonostante, oggi se si guardano le mie foto, è chiaro che ho raccontato la storia degli iracheni, più che quella degli americani.  Decidere con chi partire a volte è possibile e a volte è una scelta obbligata, però il fatto che sia obbligata non significa che si traccia con enfasi la storia di quelli con cui ti accompagni.

Puoi cercare il committente più in linea con la tua opinione?

Sì, ho sempre lavorato con giornali che mi davano possibilità di manovra e libero arbitrio.

E il tuo punto di vista è sempre stato rispettato?

In realtà la fotografia che più mi appartiene non è mai stata usata come avrebbe dovuto. Quando sono andato a fare la storia dell’invasione del Kuwait da parte irachena, e seguivo i marines americani, la foto che meglio sintetizzava tutto quanto, era quella di un marine seduto su di un lussuoso divano made in Italy, anche se piuttosto kitsch, e i ritratti dei tre regnanti sauditi alle sue spalle. Bastava questa foto per raccontare tutta la vicenda della guerra del Golfo.
L’intervento USA, più che per liberare il Kuwait, era dovuto alla salvaguardia  degli interessi del suo maggior partner petrolifero, l’Arabia Saudita, che poi è quella che ha generato Osama Bin Laden…
La foto, definita da Adrian Evans, critico inglese, il miglior scatto degli anni novanta, è stata pubblicata solo dieci anni dopo.

Le storie hanno bisogno di tempo per essere raccontate?

Quando ho iniziato la Palestina, ho pensato che l’avrei terminata quando i palestinesi avrebbero creato un loro Stato e raggiunto l’indipendenza, cosa che non è ancora successa, e probabilmente questo è un lavoro che continuerà nel tempo e non troverà la parola fine.

Come è nato il tuo lavoro sul coma?

Avevo letto una notizia su un giornale in cui si raccontava di un ragazzo che viveva una non vita in questa condizione, e di alcuni volontari militari che andavano ogni giorno ad aiutare la famiglia.
Questo lavoro fu  pubblicato quasi subito, successivamente quando ho approfondito il problema, è diventato problematico pubblicarlo, è un tema triste. Così viene definito, e quindi rifiutato.

Quando decidi che è finito un progetto?

Mai. Penso sempre che si possa raccontare di più, si possa raccontare meglio.

Riesci a lavorare contemporaneamente su progetti diversi?

No, se mi concentro su una storia, lavoro su quella. Naturalmente se sono lavori di tre settimane. Se è una storia a lungo termine, faccio altre cose insieme.

Pensi di avere gli stessi valori di quando hai iniziato a fare questo mestiere?

Sì. Continuo ad essere il solito sognatore di allora.

E che cosa pensi sia cambiato rispetto a quando hai iniziato?

È cambiato il mio modo di guardare. Non per un fatto di pensiero e ideologia, ma per una questione compositiva. Probabilmente mi sono affinato, cerco di sintetizzare meglio tutto ciò che vedo, di riassumerlo in una sola immagine. Cerco una trama, un disegno, una grafica. Soprattutto da quando lavoro in bianco e nero.

Hai iniziato a colori e sei passato al bianco e nero.

In passato ho lavorato molto a colori, i giornali cercavano foto a colori. Però il colore prestava meno attenzione al soggetto, al fatto primario. Le foto erano scelte dai direttori dei giornali e dai grafici, in base alle loro cromie, alle tonalità dei colori, non si guardava al contesto. E allora ho iniziato a lavorare in bianco e nero.
Però il bianco e nero è più difficile, è composto da una costruzione geometrica, è una fotografia più grafica, e deve contenere l’essenziale senza essere un’immagine piatta, scialba.

Non credi che la grafica del bianco e nero semplifichi una realtà più complessa?

No, toglie il colore, ma rimane l’anima. I colori puoi anche immaginarli. Il sangue, anche se lo vedi nero, capisci che è sangue.

 

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