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Reportage – Ugo Panella: Grecia, le prèfiche di Mani

Ugo Panella è uno dei migliori fotoreporter italiani, attivo in molti Paesi del mondo fin dagli anni Settanta. Qui trovate la sua biografia completa.

Ci ha scelti per diffondere un approfondimento potente, dedicato a una tradizione che sta scomparendo, con foto che sono accompagnate da testi suoi e della giornalista Melissa Corbidge. Siamo molto grati a entrambi.

Di Ugo Panella

Nella parte centrale del Peloponneso si protende verso il mare la regione di Mani. Un territorio fatto di montagne brulle, terreno pietroso, torri di avvistamento che guardano il mare Egeo di un blu intenso. Oltre la rudezza del paesaggio, sopravvive una tradizione antica che accompagna i morti in una cerimonia rituale che comprende litanie, pianti, urla e ricordi di frammenti di vita del morto, recitate da donne molto anziane. Sono le “prèfiche di Mani”. Una tradizione che nasce dall’idea che il dolore dei parenti venga attutito da queste rappresentazioni plateali che le prèfiche recitano per tutto il tempo dell’esposizione del defunto alla vista di chi viene a portare le condoglianze alla famiglia. Melissa Corbidge, una giornalista esperta di cultura greca, propose la storia a Marie Claire Italia che accettò di produrre il reportage. Partimmo per Atene e da lì, prendemmo una macchina all’aeroporto ed arrivammo dopo qualche ora di comodo viaggio nel paesino di Gerolimenas. C’informammo se nei paesi vicini vi fossero dei funerali in programma ma nulla era previsto. Passavano i giorni, eravamo in contatto con il pope locale che avrebbe dovuto avvertirci nel caso fosse morto qualcuno. Niente da fare. Un pomeriggio, tanto per far trascorrere il tempo, ci segnalano una vecchia prèfica, molto nota nella regione, che potevamo intervistare e fotografare. Andiamo a conoscerla e ci accoglie sotto un pergolato. Ha novant’anni ed è cieca. Inizia a raccontare una lunga storia che Melissa mi traduce… e ad un certo punto si interrompe e, dopo un lungo silenzio , dice che non passeranno 24 ore che nel paese si piangerà molto. Finisco di fotografarla, la salutiamo e torniamo nel nostro alberghetto convinti di aspettare ancora altri giorni vuoti.
Alle 10 di sera chiama il pope e ci dice che da Atene stanno arrivando una coppia di anziani morti in modo tragico. Tornano nel loro paese di origine accompagnati dai figli. Lei morta a 80 anni per un tumore e lui, a 85 anni, due ore dopo, si è sparato con il fucile da caccia perché incapace di sopravviverle. La profezia della prèfica si era avverata dopo poche ore.

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Di Melissa Corbidge

Lezione di pianto

Terra e sasso, carne e ossa, femmina o maschio: c’è una terra ai margini dell’Europa dove è ancora libero di manifestarsi un grande potere delle donne, quello di entrare e uscire dal magma delle loro emozioni. E dove quel potere è messo al servizio di una divinità onnipresente, la stessa che ha impedito agli dèi olimpici e al Dio unico di Cristianesimo e Islam di piantarvi radici profonde. Non sono ammesse mediazioni nel micro-universo arcaico di Mani, estremo avamposto del continente greco a sud, dove gli antichi hanno collocato la “bocca dell’Ade”. Su questo territorio/fortezza in fondo alla penisola mediana e più angusta delle tre che concludono in basso il Peloponneso, il dogma cristiano è approdato – ma solo per sfiorarlo – con mille anni di ritardo rispetto al resto del mondo ortodosso. Forse perché quaggiù è difficile credere davvero in una vita futura e migliore quando già quella presente non è che duro travaglio, con la notte e il maledetto inverno sempre in agguato, a segnare la fine del giorno o di una stagione più mite. Così, dice papa Yorgos, il pope, è sempre dietro l’angolo la morte, momento conclusivo di un altro ciclo (stavolta l’esistenza) che, proprio al pari della nascita, stabilisce un contatto tra il dentro e il fuori, il visibile e l’invisibile, tra l’ordine, insomma, e il caos.

In una società dominata dagli uomini, organizzata all’ombra di case/torri che la proiettano tanto più lunga e scura quanto maggiore è la statura sociale dei rispettivi padroni, tocca alle donne, creature dall’ombra “sottile” – insinuano da queste parti – affacciarsi sulla condizione ignota, e in quanto tale ostile, del trapasso. Loro sole sanno come affrontare il vuoto. A loro tocca ristabilire la continuità tra il “prima” e il “dopo”, e trasformare il dolore individuale in pianto collettivo e quel pianto in un canto – il moïroloi –  triste come un lungo addio. Madri, figlie, spose, cugine, zie, cognate, o lontane parenti che siano, soltanto le donne i morti li accarezzano, li profumano e li vestono affinché possano affrontare con decoro l’esilio definitivo. A loro, che con dolore partoriscono, spetta l’ultima parola.

Loro sono le moïroloistres, rivelatrici della moïra – il destino –, interpreti dei sogni e capaci di accedere a una dimensione fuori dal tempo e dalla logica, di oscillare tra la divinazione ermetica e le frasi di senso comune. Le sostiene un accurato tirocinio, molto simile al mestiere delle prefiche che nell’antica Roma venivano incaricate di intonare lodi al defunto durante i rituali funebri. Con la differenza che queste venivano pagate, le lamentatrici di Mani no. Per loro comporre il peana finale è uno strumento di potere. Un dichiarare alto e forte che sono loro le padrone della vita e della morte.

Kalliope a detta di tutti era la più brava. Oggi ha quasi novant’anni e ai funerali non ci va più. Ha speso una vita a piangere, ha esaurito, dice, le lacrime. Inutile chiederle un saggio di prova. Recitare un moïroloi senza cadavere è come volersi ubriacare senza vino. Quasi un sacrilegio. Quando le si chiede di mostrare almeno il gesto delle mani o la postura del busto mentre si canta, guarda l’interlocutore fisso attraverso i suoi occhi velati dalla vecchiaia e non capisce perché si debba scomodare proprio lei, visto che domani, fa sapere, “si farà tanto di quel piangere” per Eleni, morta a soli quarant’anni, lasciando orfani sei figli che non ha fatto in tempo a “sistemare”. Eleni, continua, era di buona famiglia e aveva un marito rispettato. Certo, se a morire fosse stato un uomo aitante e fresco d’anni, o meglio un soldato, oppure un capofamiglia magari più avanti con l’età, ma ancora robusto e bene in vista nella comunità, la perdita sarebbe stata ancora più importante.

Si scopre così che qui esistono esatti parametri per determinare la solennità, il peso, se così si può dire, di un funerale. Le esequie degli uomini sono in testa alla classifica religiosa e mondana. Poi conta l’anagrafe. Il decesso di una donna giovane “pesa” in ogni caso più di quella di un vegliardo malconcio o di un fanciullo che non abbia potuto realizzare un proprio status. Seguono le anziane, gli storpi, gli idioti. In coda si collocano i neonati, mai usciti dalla zona ambigua di passaggio tra l’aldilà e l’aldiqua, mai realmente vissuti.

Kalliope non sa con precisione dove si piangerà Eleni, deceduta in un ospedale di Atene. Abitava da almeno quattro lustri nella capitale, come la maggior parte della gente di qui. I pochi rimasti s’interrogano se i suoi ragazzi, nati e cresciuti in città, la vorranno seppellire nel suolo natale, e sottoporla quindi a un rito pagano da molti oggi considerato anacronistico, isterico, una faccenda di donne. Kalliope non sa, ma “sente” che la veglia ci sarà. Lei è sicura che Eleni tornerà. “Tutti alla fine tornano”, spiega. Ed Eleni è tornata. Il giorno dopo avere esalato l’ultimo respiro.

Ora suona, distante, una campana. Qui anche le sorde odono il suo lugubre messaggio. Il soffio della morte le penetra e le scuote come una vibrazione, vola di bocca in bocca, si spande tra un villaggio e l’altro. Ecco allora che nugoli di figure nerovestite, sempre curve, come sotto il fardello di una sorte impossibile, all’improvviso si sollevano, drizzano la schiena acciaccata dalla fatica nei campi, interrompono le chiacchiere segrete tra i vicoli, sollevano i pugni al cielo in segno di rabbia, e si ritirano per prepararsi all’appuntamento con l’unica dea. Il giorno della cerimonia si levano all’alba e, animate da un’intima eccitazione, si dirigono verso il luogo convenuto per la celebrazione. Indossano i vestiti migliori, cappello in testa, borsetta in mano con dentro l’indispensabile fazzoletto, corvine dalla testa ai piedi. Rammentano le “macchie di lutto rinunciate all’amore” descritte da Fabrizio De André in Disamistade di Anime salve. Sbucano dalle torri di pietra, attraversano la campagna punteggiata di ulivi e fichidindia, e al loro passare altre prefiche ingrossano il corteo.

Basta seguirlo, per sapere dove si piange Eleni. Conduce in una chiesa, la casa di famiglia è chiusa da anni. Alle sei del mattino, il feretro e i fiori ci sono già, portati dai parenti e amici che la notte precedente hanno seguito il carro funebre in pullman dalla capitale. Anche le prime moïroloistres hanno già intonato il lamento. Hanno lasciato scivolare lo scialle dal capo sulle spalle, qualcuna si è sciolta i capelli, di solito stretti in trecce annodate dietro la nuca. Hanno iniziato a tessere il filo del lungo poema di commiato. All’ingresso di ogni nuova venuta nel tempio, il volume delle voci si alza, la disperazione si moltiplica grazie allo stabilirsi di un’ulteriore assonanza. Il pianto diviene tanto più intenso quanto più forte è il legame tra chi si affaccia sul portone e la defunta. Di uomini a quest’ora, in giro non se ne vedono. Sono andati tutti a scavare la fossa al cimitero. Nell’arco di due ore l’ambiente si riempie di un popolo femminile che si scambia abbracci e sussurri intanto che si accomoda sulle panche. Ma dalle panche, sospinte da altri arrivi, le moïroloistres passano a disporsi in un cerchio sempre più stretto intorno alle spoglie, chi seduta e chi no.

Quando le presenti bastano a formare un buon coro, dal gruppo emerge a un certo punto una korifea, la capocoro, colei che lo guida e che dipana il componimento. Inizia lei il resoconto circostanziato della vita e della morte di Eleni. Racconta quanto Eleni fosse bella, buona e onesta, brava cuoca, una moglie e madre esemplare. La chiama corona e colonna del focolare. La sgrida per essersi lasciata vincere dal tumore. Per averla abbandonata. Per avere inflitto un torto tanto grave soprattutto ai suoi figli, e al povero Costantino che l’ebbe in sposa bambina, lui che avrebbe potuto essere suo padre. La implora di cambiare idea. Insiste: “Perché non te non torni finché sei in tempo?”. Rincara la dose: “Tirati su da quel giaciglio sepolcrale, lo sai che questo è il giudizio finale. Ti sei scordata che c’è ancora una cambiale da pagare?”. Poi passa a consolare le sorelle, i fratelli, i familiari intimi. Ogni korifea può tirare avanti mezz’ora, o più, le altre a echeggiare le frasi più significative, aggiungere i tasselli mancanti e a ordire, con moti del corpo e con la tragica voce, la metamorfosi che fa di una morte una “buona morte”, contrapposta alla morte “nuda e silente”, vissuta come pubblica vergogna.

E’ la metamorfosi che spinge Eleni oltre la soglia, come esplicitamente rivendica il verso. La korifea non perde mai una rima, non spezza la cantilena, improvvisa in metrica omerica perfetta, otto sillabe ogni frase, aiutandosi all’occorrenza con intercalari codificati. Non c’è caduta di tensione neanche quando si porta il fazzoletto al naso, si asciuga gli occhi, si batte le nocche sul petto. Il suo è un ruolo fondamentale. Le donne, quel ruolo, se lo disputano. Tutte vorrebbero assaporare l’ebbrezza del potere. La capo-coro si sfinisce, ma non vuole cedere lo scettro. Quando raggiunge l’apice drammatico, le sue vicine le stringono il braccio. Le raccomandano di smettere. “Quietati, riposa, non puoi continuare a reggere tutto questo male”, le bisbigliano, dapprima comprensive. Poi si spazientiscono. Hanno già il verso pronto che urge da dentro e affiora sulle labbra. Colei che finalmente riesce a succederle, subentra nel racconto senza interromperlo ma in tono dimesso. Il ritmo rallenta, diventa una ninna nanna, quindi rimonta in un crescendo lento. Lo scambio si ripete, a turno, per ore. Neanche alle parenti più strette è concesso di abusare del tempo a loro di volta in volta assicurato, poiché nella cultura di Mani al tempo è legata la memoria e la “porzione” di fato di ciascuno. Le donne, che si considerano ambasciatrici del trapassato entrato ormai in uno spazio senza tempo, supreme testimoni e depositarie del suo essere vissuto, quando si scambiano il canto si scambiano in realtà tempo, ricordi, onore e parti di destino.

Ogni tanto qualcuna si alza, esce, controlla la situazione all’esterno, dove le più mattiniere hanno provveduto a sistemare alla bene e meglio il necessario per un rinfresco davanti al sagrato. Poi rientra con una bottiglia d’acqua per le amiche rimaste nel frattempo nel tempio. Avanti e indietro, dentro e fuori: anche in questo modo le donne vanno e vengono tra la vita e la morte. Lo stesso avrebbero fatto se Eleni avesse avuto una casa; si sarebbero spostate tra la cucina e la stanza mortuaria. Lì avrebbero certo potuto rendere meglio onore agli ospiti e offrire, al posto di un bicchiere d’aranciata, un caffè, un liquore, dei biscotti. Avrebbero spostato i mobili per rendere più agevole l’andirivieni e rivolto contro il muro gli specchi che riflettono immagini rovesciate e perciò allusive di profondità ctonie. Avrebbero coperto con drappi le foto-ricordo ma la veglia si sarebbe prolungata, come in chiesa, tra il tremolare delle fiammelle dei ceri e lo scoppio di singhiozzi sullo sfondo della nenia inesorabile delle moïroloistres.

Gli uomini sarebbero comunque arrivati più tardi, non prima delle 11, si sarebbero avvicinati alla bara scoperta, avrebbero baciato la fronte del morto, deposto un fiore sulle sue mani incrociate all’altezza del ventre, esibito un distaccato autocontrollo. Poi avrebbero lasciato, senza interferire, le donne al loro lavoro. Si sarebbero ritirati nel cortile a discutere e a fare la colletta per coprire le spese del funerale.

Casa o chiesa, l’ultimo a presentarsi sulla scena è il prete, un “esterno”, esponente massimo dell’autorità maschile, chiamato a svolgere una funzione né più né meno di quella di un funzionario dell’erario che riscuota le tasse. Al suo arrivo il canto s’impenna: è il segnale dell’imminenza della separazione irreparabile. Con il suo sfarzoso abito talare e la boccetta dell’acqua benedetta, lui viene solo per portarselo via, quel corpo tanto prezioso quanto privo di vita. All’ordine di sigillare il feretro, il canto si fa urlo violento. A placare le anime disperate compaiono gli uomini, chiudono la bara e se la caricano in spalla. Se la veglia si è svolta in una casa, la trasportano fino alla chiesa della parrocchia per il rito religioso. Là nessuno fiata. Le donne, che per una mattina intera si erano sgolate, preferiscono starsene il più lontano possibile dall’altare. In prima fila restano solo i congiunti e chi è venuto per un atto doveroso di partecipazione. La messa dura circa mezz’ora, dopodiché si forma la processione verso il campo santo, avanti la bara e dietro gli altri. Gli uomini accelerano il passo: come il prete, hanno fretta di sbrigare il deprimente affare della sepoltura con meno lagne possibili. Fosse per loro, percorrerebbero sempre quel tratto – per quanto breve – in automobile. Tra loro, le prefiche incedono a gruppetti, stringendosi intorno alla vita e riprendendo a cantare sommesse. Il pianto si innalza ancora straziante, un grido, prima di calare il feretro nella tomba, quando la bara viene nuovamente scoperta e gli astanti depongono accanto alla salma alcuni oggetti che erano cari all’estinto e che potrebbero risultargli utili durante il “viaggio”. Viene anche versato un bicchiere d’olio, uno di vino e un pugno di terra amalgamata con l’acqua.

A questo punto si è sicuri di avere fatto tutto quello che garantisce la “buona morte”. Chi resta non deve più rimproverarsi niente. E’di nuovo tempo di tornare a vivere da esseri in carne e ossa e a separare la terra dai sassi. Non prima però di avere “perdonato” subito chi se n’è andato per sempre, consumando un pranzo a base di legumi e pesce. Così, a Mani, si comincia a colmare il vuoto creato dalla sua assenza.

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