Non sono le mie foto migliori. Dalle zone di guerra e di catastrofi ne ho fatte di più belle, più drammatiche, ben composte. Paesaggi, ritratti, dettagli; scoppi e spari. In questo libro però non voglio parlare del dramma della guerra o del falso mito del fotografo di guerra che diventa un eroe. Questo libro vuole parlare di come vengono affrontate, da chi le vede e da chi dovrebbe mostrare immagini terribili come queste. Come se fosse un esperimento: cosa succederebbe se smettessimo di autocensurarci?
Tutti noi ci autocensuriamo. Anche io lo faccio. I photoeditor e gli editori lo fanno con il solito ritornello, “purtroppo, questo va oltre a ciò che possiamo pubblicare.” Il nostro cervello cerca di proteggerci e ci impedisce di guardare. Abbiamo paura di avere paura. Ci preoccupiamo perchè potrebbe essere moralmente sbagliato, pensiamo di sfruttare i soggetti o di avere tendenze voyeuristiche. Questo meccanismo di auto-censura è spesso erroneamente confuso con la pietà o con il rispetto per i soggetti nelle foto, in un primo momento il non guardare sembra essere una cosa buona e che ci fa onore. L’auto-censura però può essere estremamente pericolosa non solo sulla popolazione ma anche a livello personale. Mio nonno, che ha servito il regime nazista, ha scelto di dimenticare quello che aveva visto. Noi ricordiamo vedendo nella nostra mente immagini fisse e non i video, i testi o le parole. Se non permettiamo a noi stessi di guardare anche le immagini che definiamo orribili, come saremo in grado di ricordare? Dobbiamo ricordare! Se non lo facciamo è come se questi fatti non fossero mai successi.
Provo rabbia. L’invasione dell’Iraq mi ha fatto arrabbiare. I tanti fallimenti in Afganistan mi fanno arrabbiare. Anche le tante persone che dicono che non possono guardare le mie foto mi fanno arrabbiare. Sono una persona educata. Rispondo sempre, “Oh, nessun problema, capisco”. Ma in realtà questa è una bugia. Nel profondo, sto urlando a squarciagola, “Le mie foto non si possono guardare? Beh, farle è stato ancora più difficile che guardarle! Svegliatevi! Queste sono persone reali! Se non riuscite a vedere allora fate qualcosa per tenere l’inferno della guerra lontano da questo pianeta! Dovete vedere!” Ma come ho detto, sono una persona educata. Non parlo così. Non sarebbe neanche giusto. Ci vuole tanto coraggio per guardare alcune delle mie immagini e non è affatto facile. Alcuni si chiedono fino a che punto sia giusto mostrare queste cose. Sappiamo che le guerre e le catastrofi sono eventi orribili. Ma siamo davvero consapevoli di quanto lo siano veramente? Sì? Perché allora siamo così scioccati davanti alle immagini di questo tipo?
Questo libro è la mia esperienza personale ma in un certo senso è anche la vostra, perché queste cose sono accadute anche nel vostro tempo. Siete spettatori e siete complici. Siete quelli che hanno la responsabilità maggiore, perché avete il potere di prendere una decisione consapevole e di scegliere ciò che volete vedere. Ci sono pagine di questo libro che sono chiuse ma si possono aprire facilmente con un coltello o un tagliacarte. Tocca a voi. Decidete se volete autocensurarvi o no. A volte bisogna sforzarsi. E per farlo può servire un coltello.
La maggior parte dei miei colleghi hanno molte immagini come la mie. Le tengono dentro gli hard-disk, diventano invisibili. Troppo facile però dare la colpa solo alla censura dei media. La maggior parte delle fotografie di questo libro sono state realizzate per il New York Times, ma lo sono anche per voi che leggete e che pagate per leggere notizie e vedere.
Questo tipo di foto ha la capacità di scioccare e disumanizzare, nello stesso modo in cui lo fanno le immagini pornografiche. E’ stato scritto molto su questo aspetto della fotografia di guerra e sull’estetizzazione della violenza, il voyeurismo, e la strana attrazione che tutti noi sentiamo verso le immagini della sofferenza altrui. Sono un fotografo e lascio che di queste cose ne parlino altri. Sento però di avere l’obbligo di pubblicarle. Se non lo faccio, ho fallito. Non pretendo di essere superiore e non mi importa come viene definito quello che faccio. Chiamatelo pure “war porn”. Credo che sia impossibile evitare la critica che accusa di sfruttare queste persone nelle immagini. NATURALMENTE i fotografi “sfruttano” i loro soggetti! Naturalmente è war porn!
Troppo spesso però queste sono scuse trovate per evitarne la pubblicazione ma tutto ciò non è fiction, non sono i film ultra violenti di Hollywood che così avidamente guardiamo, o i videogiochi raccapriccianti a cui giochiamo, queste immagini documentano eventi successi realmente. Come può tutto ciò essere considerato privo di significato da non essere pubblicato? Come possiamo rifiutare di vedere la realtà, mentre ci sono persone che quell’orrore lo vivono veramente?
Il giorno in cui i miei nipoti mi chiederanno cosa e come sono le guerre, allorà tirerò giù dallo scaffale questo, che sarà ormai un vecchio libro, e potrò rispondere loro: “Questo è ciò che è stato. Questo è quello che ricordo. Guardate”.
Christoph Bangert
Christoph Bangert was born in a rural part of Western Germany in 1978. He studied photography at the Fachhochschule Dortmund and at the International Center of Photography, New York. He graduated from ICP in 2003. Bangert was a semi-professional rally driver for four years. In 2002 he shipped an old green Land Rover from Germany to Buenos Aires and in six months, drove from Argentina, 22,000 miles to New York City. The journey resulted in his first book titled Travel Notes.
christophbangert.com