Barbara Silbe
Di Katia Morichetti colpisce l’uso che fa del mezzo fotografico. Come fosse un’estensione del pensiero, trasforma l’obiettivo in un microscopio attraverso il quale analizza il mondo che le sta intorno, la sua famiglia e la sua stessa persona. Nel suo esprimersi, non ricorre però a quel genere d’indagine che diventa essenza meditativa come nelle opere-astrazione di Abbas Kiarostami, non usa nemmeno l’autoritratto alla Francesca Woodman a cui moltissime autrici dopo di lei si sono ispirate. Katia è documentale, dà attenzione alla storia, vuole fermare le cose che le accadono, analizzarle e ripensarle anche nei giorni a venire. Con questa serie compie un atto coraggioso, quello di svelare se stessa e i suoi ricordi. Attraverso l’arte manifesta il desiderio di mettere un punto e proseguire. E’ introspettiva, non introversa. Ogni inquadratura è un racconto a sé stante ed è discorso che si srotola. Ogni fase del suo narrare cerca soluzioni, fosse anche solo interiori, a darle equilibrio. E in chi osserva resta la voglia di una seconda puntata con il lieto fine.
Katia Morichetti è nata a Macerata nel 1975. Ha iniziato a interessarsi di fotografia solo sette anni fa, ma ha già al suo attivo diverse mostre, pubblicazioni e riconoscimenti. Questo ci scrive la stessa autrice per introdurre il suo portfolio:
“Qualche giorno prima del mio ottavo compleanno i miei mi portarono da uno psicologo infantile.
Balbettavo.
Lo psicologo fece le cose che una bambina intelligente e introversa si aspetta:
disegna la tua famiglia, disegna tua madre, la tua casa. Poi lui parò coi miei e,
quando ce ne siamo andati mi sono ritrovata due genitori che non erano quelli
che ricordavo, quelli di un’ora prima, insomma.
Mia madre mi ascoltava, mio papà sorrideva.
Si parlavano tra loro.
Sorridevano parlandosi tra di loro.
Non va bene, pensai, chi sono questi?
Questa curiosa situazione durò mezza giornata.
Il giorno del mio compleanno già si ignoravano di nuovo tra di loro, ed iniziavano
ad ignorare di nuovo anche me.
Mia madre riprese i suoi rancori, poggiati momentaneamente sulla scrivania dello psicologo,
e se li rimise nell’abito da casa a fiori.
Mio padre prese i suoi sensi di colpa e tornò a tenersi occupato per non pensare:
l’orto, i libri, poi la tv.
La causa della balbuzie non è chiara: dicono ansia, rabbia repressa, ereditarietà.
Di fatto, io sentivo di incespicare con le parole perché volevo essere ascoltata
per un tempo un po’ più lungo ed avevo così tanto da dire.
Ma non mi capitava che qualcuno mi ascoltasse.
Che loro mi ascoltassero.
Non capitava praticamente mai.
A casa mia, si sta molto in silenzio”.