Ray Giubilo, fotografo (quasi) per caso

Cogliere l’attimo. In fondo la vita è questa e sei fai il fotografo ancor di più. Soprattutto se fai il fotografo (quasi) per caso. Ray Giubilo è australiano di nascita, italiano di famiglia, giramondo per professione. E’ diventato uno dei fotografi più conosciuto di tutto il circuito tennistico mondiale e sapendo che tutto è cominciato con la moda, la cosa è ancor più bizzarra. I suoi lavori sono esposti nelle gallerie più prestigiose del mondo, come la Proud Gallery di Londra e la US Open Gallery di New York perché Ray ha colto l’attimo, il momento giusto, il clic della sua vita come quelli che ogni giorno moltiplica dalla sua macchina fotografica. “Che è una Nikon, perché sempre con quella ho lavorato. Oggi ho due D4S con tutte le lenti possibili. Tranne il fish eye, con quello non ci lavoro”. Scatti, clic, a bordo dei campi da tennis di tutto il pianeta. E tutto perché un giorno suo padre gli disse: “Figlio mio, non stare qui a Trieste, vai a cercare te stesso nel mondo”. Fatto, un anno a Londra e poi via. L’attimo.

Riepilogando Ray.
“Riepilogando tutto è partito da Adelaide, dove sono nato: lì ci finirono nel ’55 i miei genitori da Trieste, partiti come tanti concittadini quando gli americani lasciarono la città. Finirono in Australia e lì ho vissuto fino ai 7 anni”.

Poi il ritorno a casa.
“E’ stata mia madre a volerlo. E così ho fatto le scuole a Trieste fino a iscrivermi a legge: l’università però non mi convinceva e mio padre, che in realtà sarebbe rimasto volentieri in Australia, mi disse appunto di partire”.

Altro clic: Londra.
“Mi sono iscritto ad un college inglese perché volevo perfezionare la lingua, anche se già la conoscevo. Era vicino a Cambridge e in quel college c’era la più grande camera oscura in circolazione. A me erano sempre piaciute le macchine fotografiche e così, quasi per caso, mi iscrissi al corso di fotografia. Ho cominciato così, ma non ancora pensavo diventasse un lavoro”.

Come mai?
“Ebbi la proposta di andare a lavorare alla Qantas, la compagnia aerea. E intanto giocavo molto a tennis. Fu così che arrivai a conoscere Sergio Tacchini che, saputo che volevo tornare in Australia, mi disse che lì non vendeva molto e che gli serviva qualcuno  che gli aprisse il mercato. Mi diede due borse di campionario e partii: dovevo stare sei mesi, rimasi vent’anni”.

Un altro attimo fuggente.
“Proprio così, nella vita bisogna avere anche fortuna,  essere nel posto giusto al momento giusto. E’ un po’ il segreto di noi fotografi”.

 Dunque: di nuovo Australia.
“Conobbi un italiano, Bruno Giagu, un sardo che si era inventato una rivista di moda che diventò quella di grido proprio nel momento del boom. Mi propose di cominciare a fare foto a modelle e sfilate e io ovviamente accettai. Avevo 23-24 anni, una vita fantastica: non guadagnavo molto, ma bastava per campare. E mi divertivo. Tecnicamente però non ero ancora pronto, dovevo fare gavetta: così ebbi l’occasione di fare il terzo assistente di un grande fotografo americano che veniva per le sfilate e se ne portava due da casa. Lì ho imparato tutto sulle luci e sui trucchi e da Giagu invece mi feci insegnare i segreti dell’editing e degli still life. Una vera scuola. Intanto continuavo a giocare a tennis…”.

Che a questo punto entra nella tua vita.
“Grazie a Leo Bassi che mi contatta per la rivista Match Ball: il grande Angelo Tonelli mi avrebbe fatto avere l’accredito per l’Australian Open del 1989. Il mio primo lavoro nello sport”.

Il primo di una nuova vita.
“Portai un po’ della tecnica della moda nel tennis. Fino al ’94 feci solo la stagione australiana, intanto conobbi alcuni grandi campioni come Alexandre, Newcombe e Roche. Giocando a tennis, naturalmente, al circolo di White City. Un giorno Newcombe mi fa: lunedì sei libero? Arriva George. Io dissi: George chi? E lui: ma George Bush! Viene qui a giocare con noi… Insomma, mi ritrovai a scattare il servizio e ad un certo punto Bush mi volle con sé per uno scatto: Vieni Ray, chiamami George, siamo su un campo da tennis… Alla sera durante il galà alcune di quelle immagini furono vendute a 3000 dollari l’una per beneficenza”.

Un vero trampolino di lancio.
“I miei amici campioni a quel punto mi consigliavano in giro dicendo che ero bravo, anche se in realtà non era vero. Quantomeno non ancora. Poi un giorno mi chiama Leo Bassi, diventato addetto sponsor di Tacchini, e mi dice che vuole cambiare fotografo: però devi tornare in Italia, ti do una settimana di tempo per accettare. E io: parto subito. Da lì è cominciata l’avventura”.

Era il periodo in cui si avvicinava al digitale.
“Io ci sono arrivato tardi, all’inizio le macchine costavano un patrimonio e i miei clienti non si fidavano ancora della novità. Ricordo che alle Olimpiadi di Sidney 2000 Fila aveva preso in affitto una copia del Bounty sul quale sfilavano ogni giorni Vip e campioni. La Kodak mi diede una macchina digitale e io scattavo e scattavo…”.

 

Una rivoluzione.
“La vera rivoluzione fu lo scanner portatile della Nikon: prima esisteva solo quello di Hasselblad per le grandi agenzie che costava 100 milioni di allora. Con quello piccolo scanner finalmente si riusciva a vedere il rullino prima di sviluppare… Un’altra grande invenzione è stata l’autofocus: il primo della Nikon F5, nel 1995, ha cambiato il nostro lavoro”.

Soprattutto se c’è da cogliere l’attimo di una partita di tennis.
“AI tempi, quando la messa a fuoco era manuale, c’era un grosso scarto di materiale. Diciamo che in un rullino da 36 ti rimanevano si e no 10 foto. Si andava a occhio, e ancora oggi il vero trucco è quello. Occhio. E fortuna”.

Ad esempio?
“Beh, una delle foto a cui sono più affezionato è una di Venus Williams in Australia ad inizi carriera, quando aveva ancora le treccine. Passai su un terrazzo sopra il campo per caso e la vidi impegnata in un doppio: scattai la foto mentre colpiva un rovescio, l’inclinazione era quella giusta, c’era l’ombra lunga sul campo. E subito capii che era la foto perfetta: quando mi arrivarono i negativi ne ebbi la conferma”.

Il campo da tennis perfetto?
“Ce ne sono molti. Ma il numero 4 di Wimbledon è l’ideale al pomeriggio, quando i giocatori escono dall’ombra ed entrano nella luce. E’ un attimo”

Giocatori difficili da catturare con l’obbiettivo?
“Ah, io odio fotografare Horacio Zeballos, davvero impossibile avere un bello scatto con lui. E anche Almagro, tranne quando colpisce di rovescio. Dei big i migliori sono Nadal e Federer, e il rovescio di Wawrinka. Djokovic un po’ meno: solo quando si allunga in spaccata sul dritto”.

Il tuo vecchio studio in Australia?
“Non c’è più, ormai il mio ufficio è il mondo. Se mi serve lo affitto. Ora lavoro per aziende come Lotto, Volk, Fila e per l’Itf, per la quale seguo Coppa Davis, Fed Cup, il tour Senior. Presto andrò in Turchia per la conferenza mondiale dei coach di tennis”.

Fotografi mai col cellulare?
“Ogni tanto mi capita, con gli amici. Ma ho un modello non aggiornato di iPhone, ho visto che il 6 fa cose effettivamente belle. E poi ho una piccola Fujifilm che utilizzo per gli scatti veloci”.

Ma la macchina fotografica ideale?
“Io amo le Leica, stavo per prendere la M4 ma c’è qualcosa che non mi convince. E allora forse mi tolgo lo sfizio: una M6 con il 50mm F/1 Noctilux. Solo motore e rullino. Perché l’argento del rullino non si potrà sostituire mai”.

 

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