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Intervista di Gianluca De Dominici
Fino al 29 Marzo 2025, la Leica Galerie di Milano ospita “Ultrabanale”, esposizione collettiva di ventotto fotografi uniti dal desiderio di celebrare la noia e il banale attraverso uno sguardo poetico. Partita inizialmente come una raccolta personale di fotografie, poi diventata anche un workshop per Leica Academy Italy, ci accompagna nella ridefinizione dei confini della fotografia del quotidiano. Le settanta fotografie in mostra, provenienti da tutte le parti d’Italia, mi spiega Maurizio Beucci, curatore dell’evento, «tentano di farci osservare con maggior attenzione quello che ci circonda, perché è lì, nella contemplazione della noia e del banale, che si nascondono infinite curiosità; e quindi una fotografia più semplice, diretta e schietta, una fotografia, forse, più a misura d’uomo». Una mostra che già strappa il sorriso solo a leggerne il titolo e che in qualche modo mi spinge a chiedermi come questo banale, tanto vituperato dagli specialisti dell’immagine, possa diventare il fulcro di un’intera esposizione. Ho avuto modo di scendere a fondo della questione con Maurizio Beucci. L’intervista venutane fuori tocca punti che molto hanno a che fare con noi e il nostro rapporto con la fotografia odierna.
”Ultrabanale” è un nome molto curioso, quasi buffo. Sembra voler trasmettere una sorta di giocosità nei confronti di un argomento oggi invece molto centrale nel mondo della fotografia contemporanea: il banale nel quotidiano, da tanti denigrato e da pochi seriamente valorizzato. Come sei arrivato a questo nome?
Forse era destino! Da sempre sono attirato dalla fotografia del cosiddetto “banale quotidiano”, quindi da quella fotografia di natura esplorativa che pone i suoi interessi nella ricerca di connessioni, sensazioni e ragioni utili a guardare le cose del quotidiano attraverso uno sguardo rinnovato. La fotografia, tanto per intenderci, di autori come William Eggleston, Lee Friedlander e Luigi Ghirri, che con tanta maestria hanno disegnato nuove traiettorie di visione del contemporaneo e stravolto, con le loro intuizioni, il nostro modo di rapportarci al medium fotografico. “Ultrabanale” nasce così tutto da lì, dallo studio delle loro osservazioni e dalla necessità di capire come si potesse utilizzare la fotografia per elevare il banale e la noia nel tentativo di renderli stimolanti, ma anche per allontanarci, seppur solo per pochi minuti, dalla gravità della ricerca di uno straordinario in fotografia a tutti i costi. E poi era un nome che suonava bene, cosa che in un lavoro non guasta mai.
”Ultrabanale” era stato inizialmente costruito per un altro scopo, doveva essere un album personale – il tuo – dedicato a quelle manifestazioni di meraviglia colte nello spazio ordinario, nello scorrere della vita di tutti i giorni. Quando hai sentito la necessità di farne una mostra? E, soprattutto, di coinvolgere altre persone?
Il nome “Ultrabanale” era stato inizialmente pensato per un mio progetto fotografico personale (e in parte lo è ancora), poi diventato un workshop per la Leica Akademie Italy. A causa, o per fortuna, dipende dai punti di vista, di una promozione a lavoro, non ho più avuto modo di farne un libro e ho dovuto sospenderne i workshop. Questa cosa mi ha messo addosso un pò di tristezza. Chiudere così un lavoro a cui ero tanto affezionato non mi sembrava giusto. Ho così pensato potesse essere interessante dare una chiusura simbolica al cerchio coinvolgendo altri fotografi e fotografe nella ricerca del “banale”, per capire come l’avrebbero interpretato e reso speciale attraverso il loro sguardo poetico. Farne una mostra è stata quindi la diretta conseguenza di una vivace alleanza tra ventotto fotografi desiderosi di mostrare come il banale possa acquistare valore, se sottoposto alle giuste attenzioni e alle migliori cure. Siamo molto felici del risultato, perché proprio nel contenitore “mostra” e nello scambio di interpretazioni tra narratori differenti per età, genere e provenienza geografica, si può comprendere la vastità dell’argomento e il ruolo che gioca la noia nella creatività di ognuno di noi: una noia concepita non come freno inibitore alla creazione di opere ma come strumento fondamentale per far spazio all’attenzione contemplativa. Per noi questo era un concetto fondamentale, che andava protetto.
Oggi viene facile ricollegare il banale ad una fotografia vernacolare, quotidiana, spesso realizzata da chi usa il medium solo per riempire il proprio feed dei Social Networks. Una fotografia, insomma, che molti professionisti del settore non farebbero fatica a ritenere inutile, noiosa, priva di significato, proprio perché ricondotta alla sfera prosaica. Ti chiedo quindi, il banale in fotografia è solo un’abitudine figlia dei nostri tempi oppure può essere anche qualcosa di più?
Luigi Ghirri diceva che è banale quotidiano lo sguardo che non riesce a discernere, ovvero l’atteggiamento che accetta solamente il già avvenuto, il già codificato come verità assoluta, e che Kitsch non è l’oggetto rappresentato ma il gesto che relega acriticamente un oggetto nel ghetto del non significante. Per dirla in breve, Ghirri ci dice che ciò che rende banale o non significante qualcosa non è il soggetto in sé ma il modo in cui decidiamo di guardarlo. Mi ritrovo molto nelle sue parole.
Per questo credo che più che un’estetica fine a se stessa, di cui, non lo nego, molte immagini rischiano di rimanerci comunque invischiate, come anche i fotografi, vedo nel banale l’opportunità di celebrare le cose del quotidiano; quindi uno strumento al servizio dello sguardo, più che uno stile dettato dai trend. E il motivo è semplice. Attraverso una fotografia che rispetti e che sondi a fondo le infinite sfumature dei soggetti del banale, possiamo tornare a stupirci di quello che ci circonda e costruire di conseguenza una mappa più comprensibile per orientarci meglio nel mondo delle immagini, digitali e non. Credo che i fotografi di “Ultrabanale” esposti alla Galleria Leica di Milano ci dimostrino ampiamente che tutto può diventare interessante, basta solo guardare le cose in profondità e con uno spirito diverso.
Viene ora naturale chiederselo, e sono sicuro che le fotografie esposte alla Leica Galerie ci verranno in aiuto: come si rende interessante il banale?
Attraverso il punto di vista, le scelte, l’atteggiamento. Ti faccio un esempio più concreto, per farmi capire meglio. Diedi da fare al gruppo di fotografi che parteciparono al primo workshop di “UltraBanale” una serie di cose. Tra queste c’era il fotografare un soggetto che gli piaceva e uno meno. Al di là dello sbigottimento iniziale, quando abbiamo iniziato a guardare i lavori ci siamo accorti che le fotografie di ciò che non piaceva erano fotografie brutte – esteticamente brutte, intendo dire – con poca attenzione, poca cura. Al contrario, le altre, erano invece fotografie con una luce molto bella e un’acuta sensibilità espressa nella forma e nella sostanza. Questo non voleva dire che quel soggetto fosse più interessante a priori per questioni oggettive ma solo che i fotografi si erano sforzati di renderlo più interessante, attraverso l’uso di una luce particolare o un taglio personale. Abbiamo così cominciato a discutere su cosa volesse dire fotografare il banale, e siamo arrivati alla conclusione che non vuol dire “fotografare in modalità brutta” ma raccontare e riunire in un certo modo elementi, soggetti e oggetti del quotidiano, che in qualche modo a primo colpo non attirano la nostra attenzione, per renderli stimolanti. Ecco, il banale può rappresentare una sfida incredibile e a fare la differenza è sempre quante energie decidiamo di investire nel suo racconto.
Quando si ha a che fare con una mostra collettiva sorge sempre il problema di trovare la chiave che possa rendersi collante narrativo tra tutte le opere esposte. Tu come hai affrontato questo problema? E, soprattutto, da curatore di mostre veterano quale sei, esporre il banale è stato difficile tanto quanto avere a che fare con opere più “impegnate” dal punto di vista artistico e narrativo?
Ho scelto di realizzare una mostra circolare, quindi idealmente ogni fotografia dei 28 fotografi in mostra (70 le immagini) si collega a quella dopo e a quella prima; la prima fotografia, invece, si collega all’ultima. Il che ne viene fuori un bel gioco! Con questo percorso espositivo, invito il pubblico a trovare qual è l’elemento che collega una fotografia con quella prima e quella dopo e al contempo lo spingo a soffermarsi di più sulle opere esposte, per scoprire come il banale possa stupire.
La parte più difficile è stata farsi inviare il materiale giusto e trovare le connessioni. Superata quella fase è stato tutto più semplice. Rispetto ad un’antologica dedicata ad un grande autore, dove devi rispettare il più possibile la sua storia e l’importanza di alcune opere, che magari escono dalla direzione artistica, ma che lui tiene che siano presenti in mostra per motivi personali, avevo la libertà di lavorare solo sulle immagini. Il tema lo conoscevo già e quindi è stato molto divertente lavorarci sopra.
L’unico rischio enorme per una mostra così, ti devo dire la verità, era quello di pensare che queste fotografie esposte fossero quelle che io chiamo “fotografia indie”, ovvero quella fotografia che mischia l’immagine di alcuni grandi autori con banalità tematiche e sciatteria formale. Ecco, quello che in realtà hanno queste fotografie in mostra, seppur semplici e concentrate su questioni banali, è che sono estremamente curate; cioè, non è una mostra fatta di snapshot di foto casuali: dentro c’è un pensiero, una cura, un messaggio rivolto al pubblico. Insomma, ogni fotografia esposta nasce da una reale attenzione contemplativa di chi l’ha scattata. E questo è fondamentale, sennò il banale rimarrebbe pura e sola provocazione.
Guardando la storia del medium, mi verrebbe da pensare che la “fotografia del banale” è una questione molto italiana. Oltre a Luigi Ghirri, che mi hai nominato prima, penso ad autori come Guido Guidi, Nino Migliori e Giovanni Chiaramonte, che con il quotidiano ci hanno avuto molto a che fare. Tale tesi, magari strampalata, sembra confermarsi ulteriormente dalla presenza di soli italiani nella mostra da te curata. È tutto frutto del caso? O esiste una verità di fondo?
La verità sta nel mezzo, mettiamola così. Credo che la fotografia italiana non abbia mai perso l’interesse verso il vernacolare e le cose del quotidiano. Fanno parte un pò del nostro background culturale e come tale cerchiamo sempre di inserirle dentro le nostre immagini, in maniera cosciente od incosciente che sia. Gli autori che mi hai nominato lo dimostrano bene e rimangono ancora oggi dei punti di riferimento per molti di noi. Ti dirò però che più che correlarla alla fotografia italiana, la questione del banale ce la insegnano soprattutto i fotografi americani, che con quella mitologia dei luoghi e delle strade, dove anche solo una fotografia di un palo del telegrafo in mezzo ad una via ci fa subito sognare, ci dimostrano come si possa prendere qualcosa di molto comune e renderlo universale. Questa è una capacità che va riconosciuta a loro e che ha cambiato il mondo delle immagini. Noi italiani, al contrario, siamo bravissimi a prendere piccolissime storie personali e portarle al grande pubblico. Questa, ti direi, è la nostra più grande forza.
Banale e quotidiano, mi sembra di capire, sono quasi inscindibili. Trovo questa semplicità dello sguardo e delle interpretazioni della realtà molto bella. In fondo una mostra può servire anche a questo, a ritornare a rapportarsi in maniera più genuina alle cose che ci circondano, no? Senza doversi dare chissà quale tono per conquistare il palato del pubblico più specialista (che poi non lo è mai del tutto)
Si! Io credo fermamente nella capacità didattica di una mostra. Spesso c’è un po’ una gara nel creare mostre estremamente sofisticate, che sembrano più un esercizio di stile dei curatori, che un invito alla scoperta. È ovvio che c’è anche dentro la mia mostra un esercizio di stile, non se ne può evadere, però è studiato per rendersi utile alla comprensione delle opere. La mostra si rivolge d’altronde a quelle persone che si stanno avvicinando alla fotografia ma anche a quelle che sono così tanto dentro il settore che magari cominciano ad annoiarsi a vedere sempre il medium come qualcosa di serio, di pesante, di complesso. La fotografia può essere anche una cosa più semplice, schietta, che ci collega alle nostre memorie e alle nostre sensazioni personali. Non c’è niente di male in tutto ciò.
Un modo per ridare valore ad un certo tipo di fotografia, ma anche di vita.
Si, esatto. Come ripeto spesso, dobbiamo riabituarci ad ammirare quelle fotografie che più che farci esclamare “Wow!” per la bellezza degli scenari devono farci pensare “Ah però!” per la capacità di aver individuato qualcosa che sta sotto i nostri occhi e che tramite una fotografia acquista di significato. Ritornare ad avere, in poche parole, un rapporto con lo strumento più semplice, intimo e sano. Vedi, si sente dire spesso in giro “tu scatta che poi domani le fotografie valgono di più”, come se il numero facesse la differenza. In realtà credo sia più importante sentirsi dire “scatta ciò che ti interessa o ciò che senti”, perché magari domani potresti non ricordarlo o non sentirlo più. Ecco, in qualche modo, la mostra di “Ultrabanale” vuole offrirsi come un’opportunità per abbracciare la tanto e cara vecchia noia e tornare a respirare una fotografia che magari non ci meraviglia, ma che ci rende felici.
Copyright Fotografie
- Andrea Cristiani
- Antonella Catanese
- Federica Sessa
- Francesca Tiboni
- Grégoire Kaufman
- Greta Gandini
- Ilaria Petrosillo
- Maurizio Beucci
- Max Allegritti
- Pietro Baroni & Davide Bernardi
- Tiziana Pennacchi
Info: “Ultrabanale”
Milano, Leica Galerie, Via Giuseppe Mengoni 4
Orario: martedì – sabato: 10.00 -14.00; 15.00 – 19.00. Domenica e lunedì: chiuso
Curatela di Maurizio Beucci.
Sono esposte in mostra le opere di Alessandro Chiusa, Andrea Cristiani, Antonella Catanese, Chiara Rebolino, Davide Bernardi, Diego Rigatti, Eolo Perfido, Federica Sessa, Francesca Tiboni, Gabriele Capelli, Grégorie Kaufman, Greta Gandini, Guido Argenta, Ivan De Francesco, Ilaria Petrosillo, Lorenzo Adaglio, Marco Facciano, Marco Parenti, Maurizio Beucci, Max Allegritti, Marzio Emilio Villa, Paolo Guido Riganti, Piero Percoco, Pietro Baroni, Rinaldo Ventura, Roselena Ramistella, Tiziana Pennacchi e Velvet De Guia.
Telefono: 39 02 89095156
Sito Web: http://www.leicastore-milano.com
Email: info@leicastore-milano.com