Portfolio – Enzo Parisi. Affacciarsi lungo la costa albanese

In Albania il boom economico si affaccia sul mare. Negli ultimi anni, centinaia di nuovi hotel, beach club e complessi residenziali sono apparsi lungo le rive dell’Adriatico e dello Ionio. Città un tempo dedite alla pesca o all’agricoltura vivono oggi di edilizia e turismo. Il ritmo dello sviluppo è costante e implacabile.
Il governo promuove il turismo come principale motore di crescita del Paese. I numeri lo confermano: milioni di visitatori stranieri ogni estate, aumenti a due cifre del PIL, investimenti provenienti da Italia, Turchia e Paesidel Golfo.

Ma il paesaggio racconta una storia più complessa ed è questo che cerca di raccontare il reportage di Vincenzo Parisi, . La crescita è rapida, diseguale e profondamente
visibile. Oasi di lusso per turisti, costruite in un Paese ancora ancorato alle proprie tradizioni e rituali,
convivono fianco a fianco con indigenza e privazione. Resort privati sorgono accanto a case di famiglia e a piccole spiagge pubbliche in degrado, mentre estetiche importate sostituiscono l’architettura locale.
Ogni stagione porta con sé un nuovo strato di modernità, mentre il costo sociale e ambientale resta
incerto. Il risultato è un’atmosfera al tempo stesso ottimista e disorientante, quasi grottesca: un Paese che corre in avanti senza sosta, imparando a sembrare ricco prima di diventarlo, in un sogno accessibile, se te lo puoi permettere. L’Albania non sta cedendo sotto il peso della sua crescita: si slancia forta in piedi, quasi volando, ma troppo in fretta.
La domanda è per quanto riuscirà a mantenere questo ritmo, e cosa resterà quando l’estate finirà.

L’INFINITA ESTATE E LA SUA OMBRA PIU’ LUNGA
Viaggio lungo la costa albanese. Tra crescita, sogni e contraddizioni.

Reportage di Enzo Parisi

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Arrivammo a Golem al calar del sole.
La musica rimbombava già ovunque, dalla piscina dell’hotel dove alloggiavamo. L’acqua
cambiava colore a ritmo schizofrenico: rosso, verde, blu. Sullo sfondo, un rudere incompiuto,
dove un faro abusivo, collegato dai proprietari dell’hotel, illuminava la scena come un riflettore
teatrale: acqua, rovine e canzoni neomelodiche albanesi che si alternavano a successi italiani
dei primi Duemila.
Persone che ballavano, altre che si buttavano in acqua vestite e altre, ancora, che guardavano
dai balconi, rassegnate. Nessuno sembrava volersi fermare. Era l’ultima settimana della
stagione, e la costa si sgonfiava lentamente, come un palloncino dopo una festa troppo lunga.
Nei giorni successivi, la famiglia che gestiva l’albergo prese possesso della piscina
trasformandola ogni giorno con un sipario diverso. Una mattina li trovammo a stendere
chilometri di pasta sulle sdraio, circondate da zampironi per tenere lontane le vespe. Qualche
giorno dopo, gli stessi gesti si ripeterono con i tappeti spolverati e lasciati ad arieggiare sulle
stesse sdraio. La colonna sonora era sempre la stessa. Nessuno (nemmeno noi), si stupiva più
di niente.
L’albergo aveva visto momenti migliori. Ma quello che scarseggiava in comodità e lusso era
compensato dal calore umano. Pian piano siamo diventati parte della famiglia che lo gestiva,
passando lunghe ore nel patio a giocare con i bambini e gli animali, parlando del più e del
meno. Per qualsiasi necessità erano pronti a dare più di quanto fosse loro dovere, pur di farci
sentire a casa.
Sulla spiaggia i contrasti erano netti. Un mare cristallino e caldo di cui non è possibile
dimenticarsi, un paradiso sulla terra, in un contrasto dai toni surreali. I resort a cinque stelle
chiudevano il mare con le loro piscine e pavimenti di marmo, mentre le spiagge pubbliche si
restringevano ogni giorno di più. Lì ci andavano i locali, chi lavorava nei resort, gli anziani, i
senzatetto. Un uomo anziano senza gambe avanzava verso l’acqua spingendosi solo con le
braccia. Poco più in là, un venditore custodiva tra le braccia una cassetta di banane, il corpo
piegato indietro, le gambe volavano veloci, storte sotto il peso della merce, la voce raccontava
di una canzone malinconicamente allegra, che si ripeteva ritmicamente ogni paio d’ore.
Il turismo qui ha creato opportunità per tutti e sta cambiando il paesaggio, culturale e visivo.
Tutto si regge su un equilibrio fragile tra la corsa all’ammodernamento e la lentezza quotidiana,
tra business e tradizione, tra l’urgenza di crescere e l’umanità più autentica, in una gerarchia
con un ordine fragile, come un film che non riesce mai a mantenere la continuità. É come vivere
in un paesaggio in cui cambi decennio o addirittura secolo ogni volta che giri l’angolo e dove le
strade dietro la spiaggia sembrano costruite a episodi, e ad ogni passo indietro corrisponde il
tuo status symbol, l’albergo in cui alloggi, la casa che hai, cosa puoi permetterti.
In un negozio di generi vari conoscemmo un uomo che parlava italiano. «Abito a Bergamo, ma
d’estate torno qui per seguire il mio negozio», ci disse. «Qui potete fare quello che volete.
Nessuno vi dice niente.» Molti sono tornati indietro negli ultimi anni. Per alcuni che hanno
lasciato tutto per trovare fortuna in altri lidi, l’Italia non è più attrattiva, non è più il sogno degli
anni 90. È un luogo che tarpa le possibilità e che è troppo costoso per quel che ha da offrire.
La fauna turistica qui è tutt’altro che varia e decisamente unica. Persone di mezz’età, finti
influencer, chi ostenta ricchezza sotto un velo che trasuda fragilità, finti vestiti di marca, occhiali
che nascondono sorrisi dai denti ingialliti, in una coreografia che solo Martin Parr avrebbe
potuto mettere insieme. Dietro questo muro dipinto a colori pop art, una storia diversa: fatta di
tradizione, allegria e spensieratezza, con il peso di chi deve pensare a domani.
L’Albania ha promesso il suo sogno. Ma è un sogno destinato a chi può permetterselo.
Il giorno dopo conoscemmo T., in un acquapark vicino all’albergo. Parlava un buon italiano,
lavorava stagionalmente lì, ma era lui che comandava, rispettato e ascoltato da tutti. Parlammo
a lungo del luogo, un enorme resort demolito in parte con un’esplosione controllata, dopo uno
scontro con il governo, in un gioco politico di favori e ritorsioni. Il resto era stato sequestrato.
«Adesso ci hanno messo i senzatetto» disse. E i panni sgualciti stesi su enormi terrazzi
lussureggianti, sorretti da colonne bianco ocra, erano l’emblema del luogo: la ricchezza come
facciata di una realtà molto più intricata, tenuta quasi nascosta, ma in bella vista.
Alla fermata dell’autobus per Durres, poco più di un pezzo di strada sistemato su una rotonda,
con “bus stop” scritto con la bomboletta spray su una cabina della luce, aspettavano quieti una
ventina di turisti e qualche locale. Il bus passava ogni venti minuti e il ritmo era frenetico. Tutti
salivano di fretta, cercando i pochi posti a sedere, mentre l’autobus, stipato come un generoso
kebab, ripartiva spesso con le porte ancora aperte. Il tragitto non era lungo, una ventina di
chilometri. A bordo, un bigliettaio improvvisato chiedeva 100 leke a persona. I gesti erano rapidi:
banconote in una mano, un carnet di ricevute di carta strappate a malomodo nell’altra, scambi
precisi, nessuno escluso. La confusione era generale. Chi non sapeva dove comprare il
biglietto, chi dove fermasse l’autobus, chi si chiedeva se avesse preso quello giusto, chi dove
sedersi. Una commedia dell’improvvisazione con un copione da canovaccio L’autobus correva
veloce sulla superstrada e caricava gente a fermate improvvisate. Nessun cartello, nessun
segno, spesso posizionate su un minuscolo gradino sul bordo della superstrada dove i mezzi
scorrevano veloci. Ma tutti sapevano dov’erano. Turisti e locali. L’odore di benzina e gas di
scarico riempiva il mezzo con i finestrini aperti. Una coppia chiese se il bus fermasse a Plepa. Il
bigliettaio, rude, fece segno di no, poi si voltò verso l’autista e gli urlò di fermarsi comunque.
Giorni dopo tornai alla stessa fermata. Il bus si arrestò davanti a me. Chiesi indicazioni, ma il
bigliettaio rispose con un secco “no” mentre la porta mi si chiuse in faccia e il bus partì veloce.
Lo spettacolo doveva continuare rapido.
Più tardi, nel pomeriggio, un uomo anziano si avvicinò timido sulla spiaggia. Aveva il braccio
fasciato e il sorriso sdentato. Ci mostrò dei semi di zucca avvolti in coni di giornale. Avremmo
voluto dargli dei soldi, ma non ne avevamo. Ci guardammo un momento senza saper cosa dire
e, dopo un sorriso, lo vedemmo allontanarsi sulla spiaggia. Cercammo a lungo nelle tasche
sperando di poter trovare qualcosa da dargli, mentre scompariva all’orizzonte, circondato da
questo luna park roboante.
Ogni sera tornavamo alla spiaggia. Il rumore del mare si confondeva con quello dei cantieri in
lontananza. Davanti e tutto intorno a noi la grande bellezza di un mare trasparente colorato solo
dal rosso sangue che trasformava il cielo al tramonto, il calore umano delle persone, la vita che
scorre lenta per essere assaporata, in una cornice dove l’hyper-capitalismo più sfrenato resta
sempre in sottofondo, e spinge irrefrenabile.
Poi, come ogni giorno, da qualche parte partiva la voce del venditore di banane. Era l’ultimo suono prima del buio. In quel canto melodico, pieno di vita e rabbia, nel suo correre veloce con le gambe storte, piegato all’indietro più per lo sforzo di emergere che per il peso della cassa di banane, orgoglioso e instancabile, duro e gentile allo stesso tempo, sembrava esserci tutto quello che è l’Albania.

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