Pubblicato il Lascia un commento

Mostra – Lorenzo Castore, Interior

Inaugura mercoledì 6 aprile alle 18, presso Alessia Paladini Gallery via Pietro Maroncelli 11, la personale di Lorenzo Castore dal titolo “Interior”. Sarà esposta una selezione di polittici e opere singole realizzate tra il 2008 e il 2022. Interior è un’estensione del lavoro pubblicato nel libro Ultimo Domicilio (edizioni l’Artiere, 2015) che nel tempo si evolve attraverso l’aggiunta di nuovi capitoli. La ricerca di Lorenzo Castore è caratterizzata da progetti di lungo termine che hanno come tema principale l’esperienza personale, l’identità, la memoria e la relazione tra piccole storie in-dividuali, il presente e la storia.

“Ognuna delle opere in mostra –  afferma l’autore  – parla di uno spazio fisico interiore e dell’universo emotivo a cui si riferisce. Sono tutte case che non esistono più, lasciate per i più disparati motivi (morte, guerra, separazione, vendita, cambio di vita…), da chi le aveva vissute arredandole a propria immagine e somiglianza, donandogli così una specifica personalità, frutto dei caratteri e dei gusti, delle circostan-ze e del quotidiano, della cultura, dell’educazione e della provenienza geografica dei suoi abitanti. Ho conosciuto queste case per varie ragioni: sono case che sono state vissute e poi abbandonate, case che ho frequentato o solo visitato, case di amici, familiari o sconosciuti. Tutte parlano di qualcosa che ho cercato in anni di girovagare, di un senso di appartenenza alla nostra parte di mondo. Ogni casa rappresenta il complesso mondo interiore di chi l’ha abitata certamente legato alla mia esperienza, ma anche ad una più vasta, collettiva. Parlano di un passaggio, di intimità e di un territorio comune; sono mappe di un atlante domestico occidentale. Il modo in cui questo lavoro è strutturato è estremamente personale: scaturisce dalle coincidenze, dall’identificazione e dall’immaginazione e crea corrispondenze che sono arbitrarie e strutturate allo stesso tempo”.

Note biografiche

Lorenzo Castore è nato a Firenze il 22 giugno 1973. È stato rappresentato dall’Agenzia Grazia Neri dal 2001 al 2009 e membro dell’Agence e Galerie VU’ dal 2002 al 2017.

MOSTRE PERSONALI (SELEZIONE):

PARADISO Galerie VU’. Paris, FR (2004) Photokina. Cologne, DE (2006) Espace Le Mejan, Ren-contres d’Arles. Arles, FR (2006) Mai Mano’ House of Photography. Budapest, HU (2007) NERO Palazzo Reale. Milan, IT (2004) PRESENT TENSE Galerie VU’. Paris, FR (2015) PORTRAITS Trienna-le. Milan, IT (2010) POLONIA 1999-2013 Polish Institute of Culture. Rome, IT (2013) SING ANO-THER SONG BOYS(with Michael Ackerman) Interzone. Rome, IT (2015) ITALIA (with Anders Petersen + Martin Bogren) Dunkers Kulturhus. Helsingborg, SE (2017) SOGNO #5 MACRO. Rome, IT (2017) INVITO AL VIAGGIO Leica Galerie. Milan, IT (2017) ULTIMO DOMICILIO Galleria del Cembalo. Rome, IT (2018) EWA & PIOTR Images Festival. Vevey, CH (2018) LAND Czytelnia Sztuki. Gliwice, PL (2018) 1994-2001 | A BEGINNING Galerie Folia. Paris, FR (2019) THÉO & SALO-MÉ. Planches Contact Festival. Deauville, FR (2020) GLITTER BLUES Unsocial Studio Gallery. Modena, IT (2021)

LIBRI MONOGRAFICI:

NERO (2004) Federico Motta Editore (IT) PARADISO (2005)Actes Sud (FR), Dewi Lewis Publishing (UK), Edition Braus (DE), Apeiron (GR), Lunwerg (ES), Peliti Associati (IT) ULTIMO DOMICILIO (2015) L’Artiere (IT) EWA & PIOTR (2018) Les Editions Noir Sur Blanc (CH/FR) LAND (2019) Blow Up Press (PL) 1994-2001 | A BEGINNING (2019) L’Artiere (IT) GLITTER BLUES (2021) Blow Up Press (PL)

La mostra resterà aperta fino all’11 giugno con ingresso gratuito. Orari: da martedì a venerdì ore 11-14 e 16-19. Sabato 12-19.

 

Pubblicato il Lascia un commento

Il World Report Award di Fotografia Etica

Ha da poco aperto la XII edizione del World Report Award | Documenting Humanity 2022., concorso internazionale promosso dal Festival della Fotografia Etica che vuole rappresentare fotograficamente l’impegno sociale e si rivolge a tutti i fotografi italiani e stranieri, professionisti e non. Il soggetto è l’uomo con le sue vicende pubbliche e private, le sue piccole e grandi storie; i fenomeni sociali, i costumi, le civiltà, le grandi tragedie e le piccole gioie quotidiane, i cambiamenti e l’immutabilità. Il Festival lodigiano giunge quest’anno alla sua XIII Edizione. L’evento è diventato un’importante occasione di approfondimento e conoscenza, non solo all’interno della comunità dei fotografi, ma per tutta la società civile.

Premi sempre più importanti

Nella categoria Master quest’anno si è alzato il premio a 7.000€

Nella categoria Spotlight si è alzato il premio a 3.000€

E’ stato inoltre aggiunto un ulteriore premio in attrezzatura fotografica FUJIFILM.

Per partecipare al concorso è necessario registrarsi alla piattaforma Picter, iscrivendosi gratuitamente e creando un Profilo Fotografo. Uno strumento semplice e potente per i fotografi.

QUANTE RAGIONI PER PARTECIPARE

  • 10.000 euro di premi in denaro
  • Attrezzatura fotografica professionale FUJIFILM per un valore di oltre 6.500 euro 
  • Stampa ed esposizione della mostra durante il Festival della Fotografia Etica
  • Spese di viaggio e alloggio sostenute dall’organizzazione per soggiornare a Lodi nel mese di ottobre per presentare il progetto
  • Visibilità in Italia e all’estero per la durata di 3 anni grazie al progetto Travelling Festival
  • Visibilità sulla stampa internazionale e con i professionisti del settore
  • Pubblicazione nel catalogo annuale del Festival edizione 2022
  • Visibilità per un intero anno a tutti i progetti e alle pubblicazioni future dei fotografi vincitori attraverso i loro canali di comunicazione
  • Tutti i fotografi selezionati saranno presenti nella gallery online permanente sul sito del festival

La giuria internazionale decreterà solo un vincitore per categoria, ma se reputasse meritevoli altri lavori, oltre a quelli premiati nelle quattro categorie e previo consenso del fotografo, questi potranno essere proposti come mostre nel programma ufficiale della manifestazione.

Per partecipare al concorso è necessario registrarsi alla piattaforma Picter, iscrivendosi gratuitamente e creando un porfilo fotografo.

TIMELINE:

24 aprile 2022: chiusura concorso

28 giugno 2022: comunicazione dei 10 FINALISTI per ogni categoria e dei 30 FINALISTI per il Single Shot Award, tramite il sito del Festival

30 agosto 2022: proclamazione dei VINCITORI per ogni categoria, tramite il sito del Festival.

Per info:

wra@festivaldellafotografiaetica.it

© Jana Mai, winner of the Student Award in 2021 Fotografia Etica
© Jana Mai, winner of the Student Award in 2021 Fotografia Etica
Pubblicato il Lascia un commento

BRESCIA PHOTO FESTIVAL Le forme del ritratto

Giunto alla sua V edizione, il Brescia Photo Fest è promosso da Comune di Brescia e Fondazione Brescia Musei, in collaborazione con Ma.Co.f – Centro della fotografia italiana, con la curatela artistica di Renato Corsini. Il tema che guida i percorsi espositivi verte su Le forme del ritratto. Il fulcro del festival è il Museo di Santa Giulia, epicentro culturale cittadino gestito dalla Fondazione Brescia Musei, presieduta da Francesca Bazoli e diretta da Stefano Karadjov, Istituzione produttrice dell’intera manifestazione. La kermesse si dispiega in vari luoghi della città e della provincia, tra cui la Pinacoteca Tosio Martinengo, il Mo.Ca. – Centro per le Nuove Culture, il Museo Civico di Scienze Naturali, la Fondazione Vittorio Leonesio di Puegnago del Garda e la Cantina Guido Berlucchi di Corte Franca.

Museo di Santa Giulia

Tra gli appuntamenti di maggior richiamo internazionale, la mostra WESTON. Edward, Brett, Cole, Cara. Una dinastia di fotografi, la grande monografica, allestita al Museo di Santa Giulia, dedicata a Edward Weston (1886-1958), uno dei maestri della fotografia del Novecento, le cui opere sono esposte per la prima volta in Italia a fianco di quelle dei figli Brett e Cole e della nipote Cara. L’esposizione, curata da Filippo Maggia, promossa da Fondazione Brescia Musei e Skira e progettata in stretta sinergia con la famiglia Weston, propone oltre 80 capolavori, tra cui 40 del solo Edward, con i suoi lavori più significativi: dai nudi plastici, dalle dune di sabbia, dagli oggetti trasformati in sculture sino ai celebri vegetable – peperoni, carciofi, cavoli – e dalle conchiglie inquadrate in primissimo piano. Paragonata dalla critica alla pittura e alla scultura, la fotografia di Edward Weston è l’espressione di una ricerca ostinata della purezza, nelle forme compositive così come nella perfezione quasi maniacale dell’immagine. L’autore indaga gli oggetti nella loro quintessenza, eleggendoli a metafore visive degli elementi stessi della natura.

Aspetto d’eccellenza che caratterizza l’esposizione è stata l’opportunità di lavorare a stretto contatto con la famiglia Weston. La totalità delle immagini di Edward presenti in mostra è stata stampata dalla famiglia: alcuni scatti da lui stesso, altri dal figlio Cole, seguendo le istruzioni trasferite dal padre. Negli ultimi anni della malattia del maestro, i figli lo hanno infatti assistito in camera oscura, dando in questo modo vita ad una delle collezioni più organiche del ‘900, con cui Fondazione Brescia Musei ha avuto l’onore di potersi confrontare.

 

Pinacoteca Tosio Martinengo

 Nella nuova Pinacoteca Tosio Martinengo si potrà ammirare un insolito dialogo tra collezionisti che hanno fatto la storia: Peggy e Paolo. Una passione senza tempo. Il Brescia Photo Festival mette infatti in scena un inedito dialogo tra Paolo Tosio e Peggy Guggenheim, in un celebre scatto di Gianni Berengo Gardin: a distanza di più di un secolo, l’uno dall’altra, due collezionisti affidano al ritratto la memoria della loro passione. Un progetto one-off dedicata che Gianni Berengo Gardin dedica a Peggy Guggenheim, fotografata nella sua dimora veneziana a Palazzo Venier dei Leoni, sullo sfondo una scultura di Calder. Di fronte a lei, di Luigi Basiletti, il Ritratto del conte Paolo Tosio, il mecenate illuminato grazie al cui lascito, 170 anni fa, nel 1851, la città di Brescia inaugurò la prima galleria civica d’arte contemporanea in Italia, oggi la Pinacoteca Tosio Martinengo, recentemente aperta nuovamente al pubblico dopo un’importante operazione di riallestimento di sette sale e della sezione dedicata alle opere del ‘700.

Al grande maestro della fotografia Gianni Berengo Gardin è dedicata anche la serata di giovedì 31 marzo al cinema Nuovo Eden, quando, in occasione dell’apertura del Brescia Photo Festival, è in programma in prima visione per Brescia, il film Il ragazzo con la Leica. 60 anni d’Italia nello sguardo di Gianni Berengo Gardin, di Daniele Cini e Claudia Pampinella.

 

Mo.Ca.

 Nel centenario della nascita, inoltre, al Mo.Ca. il Brescia Photo Festival ricorda Pier Paolo Pasolini, con la mostra di ritratti Pier Paolo Pasolini. Per essere poeti, bisogna avere molto tempo, curata da Renato Corsini e Gerardo Martorelli. L’esposizione restituisce una visione intimista del grande intellettuale: il rapporto con la madre, la passione per il calcio e le amicizie più profonde sono i temi di un corpus di fotografie scattate da importanti autori italiani quali Gianni Berengo Gardin, Federico Garolla, Sandro Becchetti, Aldo Durazzi, Ezio Vitale. A Pier Paolo Pasolini, in occasione del Brescia Photo Festival, anche il cinema Nuovo Eden, art house cittadina della Fondazione Brescia Musei, dedica un programma speciale, Pasolini 100, con una selezione dei suoi capolavori in versione restaurata, in collaborazione con la Cineteca di Bologna. Oltre alla rassegna dedicata a Pier Paolo Pasolini, il Mo.Ca. accoglierà Maurizio Frullani, con un focus sui ritratti al femminile nella “sua” Eritrea realizzati tra il 1993 e il 2000 nella Massaua piagata dalla guerra; Fabrizio Garghetti, con la sua documentazione delle avanguardie artistiche italiane della metà degli anni ’60; N.V. Parekh, con i suoi celebri reportage da Mombasa.

Altre sedi in città e provincia

Il Brescia Photo Festival si completa anche con tre mostre allestite in altre sedi della città e della provincia. Al Museo Civico di Scienze Naturali è possibile ammirare l’esposizione Claudio Amadei. Farfalle, immagini che scompongono il reale ed interpretano in maniera spesso dissacrante quello che la natura offre; la Fondazione Vittorio Leonesio di Puegnago del Garda, con la mostra La rivoluzione umana di ZENG YI, protagonista della fotografia cinese tra gli anni Novanta e il nuovo Millennio, che documenta il volto della Cina più nascosto, e la Cantina Guido Berlucchi di Corte Franca, che il 29 aprile inaugura I ritratti della Dolcevita, un’esposizione che documenta un modo di interpretare la fotografia che ha segnato un’epoca.

Anche nell’edizione 2022 del Photo Festival, il programma sarà arricchito dal palinsesto BRESCIA PHOTO FRIENDS che coinvolge librerie, biblioteche e le boutique del centro: 45 realtà cittadine affiancano la Fondazione Brescia Musei attraverso progetti di comunicazione condivisi: una rete, tra biblioteche, gallerie, associazioni e negozi, che permea la città dell’immagine della kermesse in modo capillare e diffuso.

La nuova edizione sarà come di consueto occasione per una serie di attività dedicate, curate da Fondazione Brescia Musei: visite guidate dedicate, workshop di fotografia, conferenze e laboratori per famiglie e adulti, per il pubblico e per le scuole di ogni ordine e grado, che consentiranno di approfondire i contenuti del Brescia Photo Festival ed avvicinare il mondo della fotografia a tutte le età.

 

BRESCIA PHOTO FESTIVAL 2022 – V EDIZIONELe forme del ritratto

31 marzo – 24 luglio 2022

Museo di Santa Giulia, Pinacoteca Tosio Martinengo, Mo.Ca e altre sedi in città e provincia

Orari di apertura:

Museo di Santa Giulia e Pinacoteca Tosio Martinengomartedì – domenica, ore 10-18Aperture straordinarie: lunedì 18 aprile e 25 aprile

Mo.Camartedì – domenica, ore 15-19

Biglietto intero Brescia Photo Festival: € 11

Biglietto ridotto: € 9 (Dai 14 ai 18 anni; sopra i 65 anni; studenti universitari e delle accademie di Brescia, titolare Brescia Card Museums Mobility, titolare Desiderio Card, titolare Skira card, titolare Feltrinelli card, abbonato Trenord (in possesso di tessera IO VIAGGIO + 1 eventuale accompagnatore), abbonato BergamoNews Friends, socio ICOM, socio Touring Club Italiano, abbonamento Musei Torino Piemonte, membro Alleanza Cultura)

Biglietto ridotto gruppi: € 8 (Gruppi da 10 a 20 o 25 persone)

Biglietto ridotto scuole: € 6

Biglietto ridotto speciale: € 6 (Bambini 6-13 anni, disabili)

bresciamusei.com

bresciaphotofestival.it

Pubblicato il Lascia un commento

Libri – A soft gaze at intimacy

Vi segnaliamo un bel progetto editoriale ed etico che vale la pena supportare. Raduna la creatività di 34 autrici e si intitolerà A soft gaze at intimacy, nome che identifica una comunità online che protende alla vita vera fatta di carta e connessioni; quasi fosse un luogo fisico in cui trovarsi, in cui accomodarsi piano e un modo per entrare in contatto con la vulnerabilità e la storia di ciascuna persona, di ciascuna artista. La pubblicazione, che sarà stampata anche grazie al nostro sostegno e ai pre-ordini, fonde la potenza alla fragilità unendo più voci in una grande elaborazione a più teste e animi.

In questa prima campagna crowdfounding, interamente curata dal team indipendente di Selfself Books, si sono incontrate appunto 34 autrici internazionali per la realizzazione di un volume collettivo che concentra la sua attenzione sulla potenza femminile e sul racconto della realtà più intima intrinseca in ognuno di noi, narrata attraverso un percorso visivo fatto di corpi, paesaggi, oggetti, ma anche, e soprattutto, relazioni umane. La pubblicazione vedrà, inoltre, la partecipazione di alcune curatrici italiane attive sul panorama fotografico, tra le quali Benedetta Donato, Alessia Locatelli, Laura Davì.

La campagna di raccolta fondi per la creazione del libro collettivo permetterà di supportare parallelamente l’associazione Ucraina CVIT, una nuova realtà al femminile che, dallo scoppio della guerra in Ucraina, si è subito attivata per portare aiuti umanitari, in termini medicali e di attrezzatura di difesa, da fornire alla popolazione civile. Per ogni contributo versato su selfselfbooks.com, a scelta tra i pacchetti #2 e #3, verrà versata all’associazione una percentuale della donazione (variabile fino alla sua metà), trattenendo il restante per la creazione e la consegna di una copia del libro a ciascun donatore. Kris Voitkiv, fotografa ucraina inclusa nella pubblicazione, è volontaria e fondatrice dell’associazione.

CAMPAGNA ATTIVA dal 28.03 al 11.05

Presentazione del libro durante il festival LIVE – Living Inside Various Experiences by Selfself dal 10 al 12 Giugno 2022 presso Pergola15.

Le autrici selezionate:

Adina Salome Harnischfeger, Aina Maria Cantallops Cifre, Alexia Colombo, Anna Breit, Annika Weertz, Arianna Genghini, Caroline Dare, Caroline Mackintosh, Chiara Cunzolo, Cinzia Gaia Brambilla, Clara Milo, Clara Nebeling, Costanza Musto, Cristina Altieri, Elisa Moro, Gaia Bonanomi, Giulia Gatti, Jasmine Bennister, Jule Wild, Kris Voitkiv, Laurie Bassett, Liza Kanaeva, Luisa Gutierrez, Lydia Metral, Maria Maglionico, Martina Parolo, Maya Francis, Megan Auer, Milena Villalón, Roberta Krasnig, Serena Salerno, Simone Steenberg, Sophie Kampf, Valeria Dellisanti.

Pubblicato il Lascia un commento

James Barnor al MASI Lugano con Accra/London – A Retrospective

Il MASI Lugano in collaborazione con Serpentine Galleries, Londra, presenta la più ampia retrospettiva mai dedicata al fotografo James Barnor (Accra, Ghana, 1929, vive e lavora a Londra). Nella sua lunga carriera, che abbraccia sei decenni e due continenti, Barnor è stato un testimone visivo straordinario dei cambiamenti sociali e politici del suo tempo – dall’indipendenza del Ghana alla diaspora africana fino alla vita della comunità africana londinese. Muovendosi con agilità tra luoghi, culture e i generi più diversi – dal fotogiornalismo ai ritratti in studio, dalla fotografia documentaria a quella di moda e lifestyle – il fotografo anglo-ghanese si è sempre distinto per il suo sguardo potentemente moderno e il suo approccio pionieristico. Nonostante egli abbia influenzato generazioni di fotografi in Africa e nel mondo, la sua opera è stata riscoperta e valorizzata solo di recente. “James Barnor: Accra/London – A Retrospective” presenta una selezione di più di 200 lavori dal vasto archivio personale di Barnor, tra cui numerose immagini inedite. Oltre ad opere vintage, ristampe e documenti originali, in mostra ci saranno anche copertine di riviste e dischi, con un’attenzione particolare per i decenni 1950-1980. Il percorso espositivo è articolato intorno ai nuclei e momenti chiave nell’opera di Barnor dagli inizi ad Accra ai soggiorni londinesi – e si snoda come un racconto cronologico attraverso le sale storiche di Palazzo Reali. Con la retrospettiva dedicata a Barnor, il MASI Lugano apre la stagione espositiva 2022 nel segno della continuità, confermando la sua costante attenzione per la fotografia contemporanea e storica, coltivata a Lugano da oltre mezzo secolo.

Barnor muove i primi passi nella fotografia nei primi anni ’50 ad Accra, dove fonda il suo studio dal nome programmatico “Ever Young”, centro pulsante di incontro per persone di tutte le età e ceti sociali. Allora il Ghana, colonia inglese, si sta avviando verso l’indipendenza – il giovane Barnor respira appieno il fervore politico e l’energia di quegli anni, che presto si rifletteranno nella sua opera. La struttura rigida della ritrattistica in studio di grande formato, che ancora fa sentire la sua influenza nei suoi primi ritratti in bianco e nero, è destinata a sciogliersi in immagini dinamiche e informali appena egli abbandona studio e treppiedi per avventurarsi sulla strada, a caccia di storie: “Se avevo bisogno di una foto, o di una nuova storia, mi precipitavo al mercato di Makola, dove la gente si comporta in modo più simile a se stessa. Questo mi piaceva di più della fotografia in studio. Usavo una piccola macchina fotografica. Era ottimo per trovare storie” così Barnor, che presto ottiene incarichi per il giornale Daily Graphic, diventando quindi il primo fotoreporter del Paese. Già nei lavori di questo decennio, raccolti in mostra nelle sezioni “Ever Young” e “Independence” emerge la cifra visiva di Barnor, quella sua capacità di riportare allo stesso modo la storia ufficiale e le storie personali su un piano di dialogo intimo, di incontro e relazione umana. In questo senso, tra i suoi scatti più emblematici spicca quello di Kwame Nkrumah mentre prende a calci un pallone, appena liberato dal carcere per diventare leader del Ghana.

Il percorso di Barnor prosegue a Londra, dove si trasferisce dal 1959: qui egli restituirà in immagini vibranti la vita della comunità africana, diventando il più importante testimone della diaspora africana nel tempo e nello spazio. I suoi scatti per la rivista Sud Africana “Drum”, baluardo anti-apartheid, raccontano gli “Swinging Sixties” londinesi attraverso il suo sguardo schietto, diretto e controcorrente. In un mondo di bianchi inglesi, Barnor mette infatti in copertina modelle di discendenza africana come Erlin Ibreck e Marie Hallowi. Spinto dal desiderio di condividere anche le innovazioni tecnologiche, Barnor fa ritorno ad Accra per fondare il primo laboratorio di fotografia a colore nel paese – tecnica che aveva studiato, tra l’altro, presso il Colour Processing Laboratories, principale laboratorio della Gran Bretagna. L’accesso al colore rivoluziona anche il ruolo della fotografia “Il colore ha davvero cambiato le idee della gente sulla fotografia. Il kente è un tessuto ghanese intrecciato con molti colori diversi e la gente voleva essere fotografata dopo la chiesa o in città indossando questo tessuto, quindi la notizia si diffuse rapidamente” così Barnor. Diverse immagini in mostra restituiscono le decorazioni, le acconciature, l’abbigliamento e la moda del tempo – un archivio visivo prezioso per la ricerca storica futura.

Il suo talento multiforme si esprime anche in diverse commissioni commerciali. Tra queste, anche un calendario promozionale per la compagnia petrolifera italiana AGIP, nel 1974 – in mostra uno scatto straordinariamente attuale presenta le modelle di colore, serene ed eleganti sullo sfondo di taniche e camion cisterna. Le commissioni includono diverse fotografie di copertine di dischi per musicisti come E. K. Nyame, padre della musica highlife ghanese. La passione per la musica e l’amore per la comunità ghanese, lo portano a gestire in quegli anni anche un gruppo musicale di bambini chiamato Ebaahi Gbiko (All Will Be Well One Day), poi rinominato Fee Hi (All is Well). La compagnia di musicisti diventa parte importante della vita del fotografo, che accompagna i giovani anche in un tour in Italia nel 1983 come parte di una campagna anti-apartheid. Dal 1994 Barnor tornerà a Londra, dove vive a tutt’oggi.

Completano l’esposizione un video di Campbell Addy, in cui Barnor presenta il suo lavoro, e una videodocumentazione in cui spiega la sua tecnica fotografica. La mostra, organizzata dalle Serpentine Galleries di Londra (19.05 – 24.10.2021), dopo la tappa al MASI Lugano proseguirà in America presso il Detroit Institute of Arts (primavera 2023), con l’intento di diffondere l’impatto artistico e sociale di James Barnor.

 

Presentata in collaborazione con Serpentine, Londra. “James Barnor: Accra/London – A Retrospective” è ideata e organizzata da Serpentine, Londra. Curata da Lizzie Carey-Thomas, capo curatrice, Serpentine e Awa Konaté: Culture Art Society (CAS), assistente curatrice. Organizzata in collaborazione con Clémentine de la Féronnière, Isabella Seniuta e Sophie Culière, James Barnor Archives.

 

Il catalogo

 “James Barnor: Accra/London – A Retrospective” è accompagnata da un catalogo edito da König e co-prodotto dalle Serpentine Galleries di Londra, MASI Lugano e Detroit Institute of Arts. Progettato e illustrato da Mark El-khatib, include contributi di Christine Barthe, Sir David Adjaye OBE, David Hartt, Alicia Knock, Erlin Ibreck e una conversazione tra James Barnor e Hans Ulrich Obrist. La pubblicazione è disponibile in lingua inglese.

Pubblicato il Lascia un commento

Nuova Open Call di Cortona on the Move

Si rivolge agli innovatori della cultura visiva ed è aperta da oggi fino al 16 maggio: stiamo parlando della nuova open call di Cortona On The Move, il festival internazionale di fotografia che si svolte nella città toscana e che è un vero e proprio laboratorio culturale che accogli gli autori e si impegna a fornir loro strumenti, possibilità e opportunità di sviluppare i loro progetti. Il premio è un’interessante occasione gratuita per relazionarsi a una giuria di esperti, il cui compito sarà selezionare dieci progetti finalisti che verranno presentati a metà luglio durante le giornate inaugurali del festival. Alla sua prima edizione, con la partnership di LensCulture e la collaborazione del Consorzio Vini Cortona, il premio si inserisce nella costante ricerca di narrazioni originali e innovative che da sempre connota Cortona On The Move. La partecipazione è a tema aperto, gratuita e accoglie progetti, in fase di sviluppo o inediti, con i più vari approcci fotografici alla contemporaneità: nuove prospettive e nuove visioni.

Ad esaminare le proposte inviate a questo link, dove trovate info e regolamento, una giuria di esperti del settore: Jim Casper, caporedattore e co-Fondatore di LensCulture; Veronica Nicolardi, direttrice di Cortona On The Move; Laura Sackett, direttrice Creativa di LensCulture e Paolo Woods, direttore artistico di Cortona On The Move.

I dieci lavori finalisti saranno proiettati durante l’inaugurazione di Cortona On The Move 2022. Tra questi, l’autore del lavoro primo classificato riceverà un riconoscimento economico del valore di € 5.000 e sarà esposto durante l’edizione 2023 del festival, mentre altri due artisti selezionati dalla giuria vedranno il proprio lavoro pubblicato sul sito web di LensCulture.

cortonaonthemove.com

Pubblicato il Lascia un commento

Libri – Anna Di Prospero, Nei miei occhi

Contrasto pubblica Nei miei occhi, la prima monografia dedicata al lavoro di Anna Di Prospero. Tra gli sguardi più innovativi del panorama fotografico contemporaneo, la fotografa realizza un racconto che è un’originale ricerca sull’identità e la sua storia personale: il volume raccoglie le sue serie più famose, le fotografie più interessanti, ed è arricchito dal testo vibrante e coinvolgente della scrittrice americana Francine Prose.

Accompagnata dalla macchina fotografica, Anna Di Prospero posa ogni giorno i suoi occhi sul quotidiano, restituendocelo in immagini dal valore intimo e, al tempo stesso, assoluto: «Per me lo straordinario sta nella rielaborazione che faccio attraverso le mie fotografie costruite, dove il mio personale diventa qualcosa di più universale, ma con un mio punto di vista», racconta.

Le fotografie la ritraggono così nella sua casa, nel giardino, insieme alle persone con cui condivide la vita, i genitori, il compagno, i figli. Il suo sguardo si sposta verso la sua città, Latina, o verso quelle che frequenta per lavoro, come Parigi o New York. I ritratti sono l’esatto contrario dei selfie del nostro tempo, perché in ogni immagine Anna Di Prospero ci appare di spalle, assumendo così una nuova forma ogni volta, per raccontare quella complessità che ci accomuna e permettendo il coinvolgimento e l’immedesimazione di chi osserva: «Le straordinarie fotografie di Anna di Prospero ci ricordano che ognuno di noi ospita molti sé. È nella natura degli esseri umani», spiega Francine Prose nel testo che apre il volume.

Così, storia dopo storia, di Anna Di Prospero vediamo il corpo muoversi nello spazio, adagiarsi per terra, stringere al petto il figlio o abbracciare un’amica, ma non vediamo mai il suo viso. La sua presenza, delicata e misteriosa, si muove in ambienti quotidiani che diventano subito scenari da favola e, in ogni immagine, vediamo quel che vedono i suoi occhi e la seguiamo, come seguiremmo Alice alla scoperta del Paese delle meraviglie.

Note biografiche

Anna Di Prospero nasce a Roma nel 1987. Ha studiato fotografia presso l’Istituto Europeo di Design a Roma e presso la School of Visual Arts di New York. La sua ricerca fotografica si caratterizza per il segno introspettivo con cui esplora la quotidianità e il rapporto tra uomo e spazio. Il suo lavoro è stato esposto in numerose mostre personali e collettive in Italia e Stati Uniti, tra cui Les Rencontres D’Arles, Month of Photography Los Angeles, La Triennale di Milano e il Palazzo delle Esposizioni di Roma. Tra i suoi riconoscimenti il Sony World Photography nella categoria Portraiture, il People Photographer of the Year degli International Photography Awards e il Discovery of the Year dei Lucie Awards 2011.

Il volume

NEI MIEI OCCHI, Anna Di Prospero

Con un testo di Francine Prose

FORMATO: 25×25 cm
PAGINE: 128
FOTOGRAFIE: 70 a colori
CONFEZIONE: brossura con sovraccoperta
PREZZO: € 39,90

www.contrastobooks.com

Pubblicato il Lascia un commento

Paolo Simonazzi. Il filo e il fiume

Dal 26 marzo all’8 maggio 2022, la mostra “Il filo e il fiume di Paolo Simonazzi sarà ospitata nelle sale dello storico Palazzo Pigorini a Parma. L’esposizione, a cura di Andrea Tinterri e Ilaria Campioli e organizzata dall’Associazione Bondeno Cultura (ABC) in stretta collaborazione con il Comune di Parma nell’ambito del programma ufficiale di Parma Capitale della Cultura 2020+21, propone una selezione di venti scatti, tutti di grande formato, tratti dal progetto realizzato dal
fotografo reggiano tra il 2013 e il 2021 e dedicato al Po e ai territori che attraversa. Accompagna la mostra, il volume omonimo edito da Silvana Editoriale, che raccoglie l’intera serie composta da 56 scatti e due contributi critici di Davide Papotti e Francesco Zanot. Le loro parole, insieme a quelle dell’artista, sono parte del prezioso contribuito video del regista Riccardo Marchesini, presente in mostra, che potrà fornire ulteriori elementi di conoscenza e chiavi di lettura del progetto.

Protagonista di “Il filo e il fiume” è il lento, pesante e inesorabile scorrere del Po, che appare anche laddove non viene fotografato direttamente: la sua presenza emerge nel paesaggio circostante e nelle persone che abitano i luoghi solcati dalle sue acque. Il “filo” a cui fa riferimento il titolo è per l’autore al tempo stesso un’evocazione della forma fluviale, un elemento fisico che compare ripetutamente nelle fotografie e una metafora di “cucitura territoriale”. Il risultato è un’antologia di paesaggi differenti ma in relazione tra loro, uniti insieme dalla presenza del fiume, parte di un mondo forse in via di estinzione e di cui l’autore
– nel solco di una tradizione fotografica che inizia nel dopoguerra – ci consegna tracce visive, invitandoci all’ascolto di quello che Francesco Zanot chiama il canto flebile di un territorio sovraterritoriale, all’attacco della geografia politica, aggrappato com’è alla linea traballante dell’acqua per centinaia di chilometri.
Il fiume diventa dunque al contempo sottofondo evocativo e presenza implicita: come scrive Davide Papotti, esso viene esplorato per “sottrazione”, escludendo quasi sempre l’immagine stessa delle acque, […] per provare a indagare fino a quanto riesce a spingersi nell’“entroterra” l’identità fluviale. Papotti sottolinea inoltre che il filo, in ultimo, è anche quello che congiunge, invisibile ma tenace, i lavori di Paolo Simonazzi inanellati nel corso del tempo: sottili rimandi, delicate coerenze, sottese citazioni, giochi di assonanza.

Il progetto prende dichiaratamente ispirazione dal lavoro Sleeping by the Mississippi del fotografo statunitense Alec Soth, un’indagine conoscitiva condotta nel 2004 lungo il corso del più grande bacino idrografico dell’America settentrionale. Il titolo di Simonazzi fa riferimento inoltre all’album musicale The river and the thread (2014) di Rosanne Cash, in cui la cantautrice americana – figlia di Johnny Cash – ripercorre il Sud degli Stati Uniti alla ricerca del passato
e dei ricordi della
sua famiglia.

Note biografiche

Paolo Simonazzi (Reggio Emilia, 1961) vive e lavora a Reggio Emilia. Il suo approccio stilistico rivela uno sguardo al tempo stesso affettuoso e ironico per quei luoghi di provincia dove il reale si confonde impercettibilmente con il surreale. Ha partecipato a numerose mostre e realizzato diverse pubblicazioni tra cui: Tra la Via Emilia e il West (Baldini Castoldi Dalai, 2007), un progetto che illustra la penetrazione dell’iconografia americana nel paesaggio dell’Emilia-Romagna, esposto in anteprima a Villa delle Rose – MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, e poi in altre città, tra cui New York e San Francisco; Bell’Italia (Silvana Editoriale, 2014), presentato prima a Reggio Emilia nell’ambito del festival Fotografia Europea, e successivamente a Sydney, Melbourne, Tokyo e Mosca; Mantua, Cuba (Greta’s Books, 2016), una ricerca sentimentale che indaga una cittadina di provincia ai confini dell’isola di Cuba, con esposizioni tra le altre sedi a L’Avana nel 2016 e molto recentemente a Mantova. So near, so far (Danilo Montanari, 2018), progetto dedicato alla Via Emilia, che segue la mostra realizzata nel 2016 alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia; Icons of Liscio (GuaraldiLAB, 2019), ispirato alla fascinazione dei manifesti iconici delle orchestre da ballo in Emilia-Romagna e presentato nel 2021 al SI Fest – Savignano Immagini Festival. Nel 2019 un’opera del progetto Cose ritrovate (Marsilio editori, 2014), ispirato ai testi di Ermanno Cavazzoni e Raffaello Baldini, è stata selezionata per la mostra Premios de Fotografía Fundación ENAIRE 2019 nell’ambito del festival PHotoEspaña di Madrid. Con La casa di Lenin (I Quaderni di Gente di Fotografia, 2021),nel centenario dalla nascita del Partito Comunista italiano, Simonazzi rende omaggio al poeta e agricoltore reggiano Lenin Montanari.

www.paolosimonazzi.com

Paolo Simonazzi. Il filo e il fiume.
Dal 26 marzo all’8 maggio 2022

A cura di Ilaria Campioli e Andrea Tinterri
Con i contributi critici di
Davide Papotti e Francesco Zanot
Sede espositiva
Palazzo Pigorini, Strada della Repubblica 29/a, Parma
Orari di apertura
mercoledì, giovedì e venerdì: ore 15.30 – 19.30 | sabato e domenica: ore 10.30 – 19.30

Ingresso gratuito

Catalogo
Paolo Simonazzi. Il filo e il fiume, Silvana Editoriale, 2021, 160 pp., edizione bilingue italiano /
inglese. Testi di Davide Papotti e Francesco Zanot

Pubblicato il Lascia un commento

Reportage – Ugo Panella: Grecia, le prèfiche di Mani

Ugo Panella è uno dei migliori fotoreporter italiani, attivo in molti Paesi del mondo fin dagli anni Settanta. Qui trovate la sua biografia completa.

Ci ha scelti per diffondere un approfondimento potente, dedicato a una tradizione che sta scomparendo, con foto che sono accompagnate da testi suoi e della giornalista Melissa Corbidge. Siamo molto grati a entrambi.

Di Ugo Panella

Nella parte centrale del Peloponneso si protende verso il mare la regione di Mani. Un territorio fatto di montagne brulle, terreno pietroso, torri di avvistamento che guardano il mare Egeo di un blu intenso. Oltre la rudezza del paesaggio, sopravvive una tradizione antica che accompagna i morti in una cerimonia rituale che comprende litanie, pianti, urla e ricordi di frammenti di vita del morto, recitate da donne molto anziane. Sono le “prèfiche di Mani”. Una tradizione che nasce dall’idea che il dolore dei parenti venga attutito da queste rappresentazioni plateali che le prèfiche recitano per tutto il tempo dell’esposizione del defunto alla vista di chi viene a portare le condoglianze alla famiglia. Melissa Corbidge, una giornalista esperta di cultura greca, propose la storia a Marie Claire Italia che accettò di produrre il reportage. Partimmo per Atene e da lì, prendemmo una macchina all’aeroporto ed arrivammo dopo qualche ora di comodo viaggio nel paesino di Gerolimenas. C’informammo se nei paesi vicini vi fossero dei funerali in programma ma nulla era previsto. Passavano i giorni, eravamo in contatto con il pope locale che avrebbe dovuto avvertirci nel caso fosse morto qualcuno. Niente da fare. Un pomeriggio, tanto per far trascorrere il tempo, ci segnalano una vecchia prèfica, molto nota nella regione, che potevamo intervistare e fotografare. Andiamo a conoscerla e ci accoglie sotto un pergolato. Ha novant’anni ed è cieca. Inizia a raccontare una lunga storia che Melissa mi traduce… e ad un certo punto si interrompe e, dopo un lungo silenzio , dice che non passeranno 24 ore che nel paese si piangerà molto. Finisco di fotografarla, la salutiamo e torniamo nel nostro alberghetto convinti di aspettare ancora altri giorni vuoti.
Alle 10 di sera chiama il pope e ci dice che da Atene stanno arrivando una coppia di anziani morti in modo tragico. Tornano nel loro paese di origine accompagnati dai figli. Lei morta a 80 anni per un tumore e lui, a 85 anni, due ore dopo, si è sparato con il fucile da caccia perché incapace di sopravviverle. La profezia della prèfica si era avverata dopo poche ore.

.

Di Melissa Corbidge

Lezione di pianto

Terra e sasso, carne e ossa, femmina o maschio: c’è una terra ai margini dell’Europa dove è ancora libero di manifestarsi un grande potere delle donne, quello di entrare e uscire dal magma delle loro emozioni. E dove quel potere è messo al servizio di una divinità onnipresente, la stessa che ha impedito agli dèi olimpici e al Dio unico di Cristianesimo e Islam di piantarvi radici profonde. Non sono ammesse mediazioni nel micro-universo arcaico di Mani, estremo avamposto del continente greco a sud, dove gli antichi hanno collocato la “bocca dell’Ade”. Su questo territorio/fortezza in fondo alla penisola mediana e più angusta delle tre che concludono in basso il Peloponneso, il dogma cristiano è approdato – ma solo per sfiorarlo – con mille anni di ritardo rispetto al resto del mondo ortodosso. Forse perché quaggiù è difficile credere davvero in una vita futura e migliore quando già quella presente non è che duro travaglio, con la notte e il maledetto inverno sempre in agguato, a segnare la fine del giorno o di una stagione più mite. Così, dice papa Yorgos, il pope, è sempre dietro l’angolo la morte, momento conclusivo di un altro ciclo (stavolta l’esistenza) che, proprio al pari della nascita, stabilisce un contatto tra il dentro e il fuori, il visibile e l’invisibile, tra l’ordine, insomma, e il caos.

In una società dominata dagli uomini, organizzata all’ombra di case/torri che la proiettano tanto più lunga e scura quanto maggiore è la statura sociale dei rispettivi padroni, tocca alle donne, creature dall’ombra “sottile” – insinuano da queste parti – affacciarsi sulla condizione ignota, e in quanto tale ostile, del trapasso. Loro sole sanno come affrontare il vuoto. A loro tocca ristabilire la continuità tra il “prima” e il “dopo”, e trasformare il dolore individuale in pianto collettivo e quel pianto in un canto – il moïroloi –  triste come un lungo addio. Madri, figlie, spose, cugine, zie, cognate, o lontane parenti che siano, soltanto le donne i morti li accarezzano, li profumano e li vestono affinché possano affrontare con decoro l’esilio definitivo. A loro, che con dolore partoriscono, spetta l’ultima parola.

Loro sono le moïroloistres, rivelatrici della moïra – il destino –, interpreti dei sogni e capaci di accedere a una dimensione fuori dal tempo e dalla logica, di oscillare tra la divinazione ermetica e le frasi di senso comune. Le sostiene un accurato tirocinio, molto simile al mestiere delle prefiche che nell’antica Roma venivano incaricate di intonare lodi al defunto durante i rituali funebri. Con la differenza che queste venivano pagate, le lamentatrici di Mani no. Per loro comporre il peana finale è uno strumento di potere. Un dichiarare alto e forte che sono loro le padrone della vita e della morte.

Kalliope a detta di tutti era la più brava. Oggi ha quasi novant’anni e ai funerali non ci va più. Ha speso una vita a piangere, ha esaurito, dice, le lacrime. Inutile chiederle un saggio di prova. Recitare un moïroloi senza cadavere è come volersi ubriacare senza vino. Quasi un sacrilegio. Quando le si chiede di mostrare almeno il gesto delle mani o la postura del busto mentre si canta, guarda l’interlocutore fisso attraverso i suoi occhi velati dalla vecchiaia e non capisce perché si debba scomodare proprio lei, visto che domani, fa sapere, “si farà tanto di quel piangere” per Eleni, morta a soli quarant’anni, lasciando orfani sei figli che non ha fatto in tempo a “sistemare”. Eleni, continua, era di buona famiglia e aveva un marito rispettato. Certo, se a morire fosse stato un uomo aitante e fresco d’anni, o meglio un soldato, oppure un capofamiglia magari più avanti con l’età, ma ancora robusto e bene in vista nella comunità, la perdita sarebbe stata ancora più importante.

Si scopre così che qui esistono esatti parametri per determinare la solennità, il peso, se così si può dire, di un funerale. Le esequie degli uomini sono in testa alla classifica religiosa e mondana. Poi conta l’anagrafe. Il decesso di una donna giovane “pesa” in ogni caso più di quella di un vegliardo malconcio o di un fanciullo che non abbia potuto realizzare un proprio status. Seguono le anziane, gli storpi, gli idioti. In coda si collocano i neonati, mai usciti dalla zona ambigua di passaggio tra l’aldilà e l’aldiqua, mai realmente vissuti.

Kalliope non sa con precisione dove si piangerà Eleni, deceduta in un ospedale di Atene. Abitava da almeno quattro lustri nella capitale, come la maggior parte della gente di qui. I pochi rimasti s’interrogano se i suoi ragazzi, nati e cresciuti in città, la vorranno seppellire nel suolo natale, e sottoporla quindi a un rito pagano da molti oggi considerato anacronistico, isterico, una faccenda di donne. Kalliope non sa, ma “sente” che la veglia ci sarà. Lei è sicura che Eleni tornerà. “Tutti alla fine tornano”, spiega. Ed Eleni è tornata. Il giorno dopo avere esalato l’ultimo respiro.

Ora suona, distante, una campana. Qui anche le sorde odono il suo lugubre messaggio. Il soffio della morte le penetra e le scuote come una vibrazione, vola di bocca in bocca, si spande tra un villaggio e l’altro. Ecco allora che nugoli di figure nerovestite, sempre curve, come sotto il fardello di una sorte impossibile, all’improvviso si sollevano, drizzano la schiena acciaccata dalla fatica nei campi, interrompono le chiacchiere segrete tra i vicoli, sollevano i pugni al cielo in segno di rabbia, e si ritirano per prepararsi all’appuntamento con l’unica dea. Il giorno della cerimonia si levano all’alba e, animate da un’intima eccitazione, si dirigono verso il luogo convenuto per la celebrazione. Indossano i vestiti migliori, cappello in testa, borsetta in mano con dentro l’indispensabile fazzoletto, corvine dalla testa ai piedi. Rammentano le “macchie di lutto rinunciate all’amore” descritte da Fabrizio De André in Disamistade di Anime salve. Sbucano dalle torri di pietra, attraversano la campagna punteggiata di ulivi e fichidindia, e al loro passare altre prefiche ingrossano il corteo.

Basta seguirlo, per sapere dove si piange Eleni. Conduce in una chiesa, la casa di famiglia è chiusa da anni. Alle sei del mattino, il feretro e i fiori ci sono già, portati dai parenti e amici che la notte precedente hanno seguito il carro funebre in pullman dalla capitale. Anche le prime moïroloistres hanno già intonato il lamento. Hanno lasciato scivolare lo scialle dal capo sulle spalle, qualcuna si è sciolta i capelli, di solito stretti in trecce annodate dietro la nuca. Hanno iniziato a tessere il filo del lungo poema di commiato. All’ingresso di ogni nuova venuta nel tempio, il volume delle voci si alza, la disperazione si moltiplica grazie allo stabilirsi di un’ulteriore assonanza. Il pianto diviene tanto più intenso quanto più forte è il legame tra chi si affaccia sul portone e la defunta. Di uomini a quest’ora, in giro non se ne vedono. Sono andati tutti a scavare la fossa al cimitero. Nell’arco di due ore l’ambiente si riempie di un popolo femminile che si scambia abbracci e sussurri intanto che si accomoda sulle panche. Ma dalle panche, sospinte da altri arrivi, le moïroloistres passano a disporsi in un cerchio sempre più stretto intorno alle spoglie, chi seduta e chi no.

Quando le presenti bastano a formare un buon coro, dal gruppo emerge a un certo punto una korifea, la capocoro, colei che lo guida e che dipana il componimento. Inizia lei il resoconto circostanziato della vita e della morte di Eleni. Racconta quanto Eleni fosse bella, buona e onesta, brava cuoca, una moglie e madre esemplare. La chiama corona e colonna del focolare. La sgrida per essersi lasciata vincere dal tumore. Per averla abbandonata. Per avere inflitto un torto tanto grave soprattutto ai suoi figli, e al povero Costantino che l’ebbe in sposa bambina, lui che avrebbe potuto essere suo padre. La implora di cambiare idea. Insiste: “Perché non te non torni finché sei in tempo?”. Rincara la dose: “Tirati su da quel giaciglio sepolcrale, lo sai che questo è il giudizio finale. Ti sei scordata che c’è ancora una cambiale da pagare?”. Poi passa a consolare le sorelle, i fratelli, i familiari intimi. Ogni korifea può tirare avanti mezz’ora, o più, le altre a echeggiare le frasi più significative, aggiungere i tasselli mancanti e a ordire, con moti del corpo e con la tragica voce, la metamorfosi che fa di una morte una “buona morte”, contrapposta alla morte “nuda e silente”, vissuta come pubblica vergogna.

E’ la metamorfosi che spinge Eleni oltre la soglia, come esplicitamente rivendica il verso. La korifea non perde mai una rima, non spezza la cantilena, improvvisa in metrica omerica perfetta, otto sillabe ogni frase, aiutandosi all’occorrenza con intercalari codificati. Non c’è caduta di tensione neanche quando si porta il fazzoletto al naso, si asciuga gli occhi, si batte le nocche sul petto. Il suo è un ruolo fondamentale. Le donne, quel ruolo, se lo disputano. Tutte vorrebbero assaporare l’ebbrezza del potere. La capo-coro si sfinisce, ma non vuole cedere lo scettro. Quando raggiunge l’apice drammatico, le sue vicine le stringono il braccio. Le raccomandano di smettere. “Quietati, riposa, non puoi continuare a reggere tutto questo male”, le bisbigliano, dapprima comprensive. Poi si spazientiscono. Hanno già il verso pronto che urge da dentro e affiora sulle labbra. Colei che finalmente riesce a succederle, subentra nel racconto senza interromperlo ma in tono dimesso. Il ritmo rallenta, diventa una ninna nanna, quindi rimonta in un crescendo lento. Lo scambio si ripete, a turno, per ore. Neanche alle parenti più strette è concesso di abusare del tempo a loro di volta in volta assicurato, poiché nella cultura di Mani al tempo è legata la memoria e la “porzione” di fato di ciascuno. Le donne, che si considerano ambasciatrici del trapassato entrato ormai in uno spazio senza tempo, supreme testimoni e depositarie del suo essere vissuto, quando si scambiano il canto si scambiano in realtà tempo, ricordi, onore e parti di destino.

Ogni tanto qualcuna si alza, esce, controlla la situazione all’esterno, dove le più mattiniere hanno provveduto a sistemare alla bene e meglio il necessario per un rinfresco davanti al sagrato. Poi rientra con una bottiglia d’acqua per le amiche rimaste nel frattempo nel tempio. Avanti e indietro, dentro e fuori: anche in questo modo le donne vanno e vengono tra la vita e la morte. Lo stesso avrebbero fatto se Eleni avesse avuto una casa; si sarebbero spostate tra la cucina e la stanza mortuaria. Lì avrebbero certo potuto rendere meglio onore agli ospiti e offrire, al posto di un bicchiere d’aranciata, un caffè, un liquore, dei biscotti. Avrebbero spostato i mobili per rendere più agevole l’andirivieni e rivolto contro il muro gli specchi che riflettono immagini rovesciate e perciò allusive di profondità ctonie. Avrebbero coperto con drappi le foto-ricordo ma la veglia si sarebbe prolungata, come in chiesa, tra il tremolare delle fiammelle dei ceri e lo scoppio di singhiozzi sullo sfondo della nenia inesorabile delle moïroloistres.

Gli uomini sarebbero comunque arrivati più tardi, non prima delle 11, si sarebbero avvicinati alla bara scoperta, avrebbero baciato la fronte del morto, deposto un fiore sulle sue mani incrociate all’altezza del ventre, esibito un distaccato autocontrollo. Poi avrebbero lasciato, senza interferire, le donne al loro lavoro. Si sarebbero ritirati nel cortile a discutere e a fare la colletta per coprire le spese del funerale.

Casa o chiesa, l’ultimo a presentarsi sulla scena è il prete, un “esterno”, esponente massimo dell’autorità maschile, chiamato a svolgere una funzione né più né meno di quella di un funzionario dell’erario che riscuota le tasse. Al suo arrivo il canto s’impenna: è il segnale dell’imminenza della separazione irreparabile. Con il suo sfarzoso abito talare e la boccetta dell’acqua benedetta, lui viene solo per portarselo via, quel corpo tanto prezioso quanto privo di vita. All’ordine di sigillare il feretro, il canto si fa urlo violento. A placare le anime disperate compaiono gli uomini, chiudono la bara e se la caricano in spalla. Se la veglia si è svolta in una casa, la trasportano fino alla chiesa della parrocchia per il rito religioso. Là nessuno fiata. Le donne, che per una mattina intera si erano sgolate, preferiscono starsene il più lontano possibile dall’altare. In prima fila restano solo i congiunti e chi è venuto per un atto doveroso di partecipazione. La messa dura circa mezz’ora, dopodiché si forma la processione verso il campo santo, avanti la bara e dietro gli altri. Gli uomini accelerano il passo: come il prete, hanno fretta di sbrigare il deprimente affare della sepoltura con meno lagne possibili. Fosse per loro, percorrerebbero sempre quel tratto – per quanto breve – in automobile. Tra loro, le prefiche incedono a gruppetti, stringendosi intorno alla vita e riprendendo a cantare sommesse. Il pianto si innalza ancora straziante, un grido, prima di calare il feretro nella tomba, quando la bara viene nuovamente scoperta e gli astanti depongono accanto alla salma alcuni oggetti che erano cari all’estinto e che potrebbero risultargli utili durante il “viaggio”. Viene anche versato un bicchiere d’olio, uno di vino e un pugno di terra amalgamata con l’acqua.

A questo punto si è sicuri di avere fatto tutto quello che garantisce la “buona morte”. Chi resta non deve più rimproverarsi niente. E’di nuovo tempo di tornare a vivere da esseri in carne e ossa e a separare la terra dai sassi. Non prima però di avere “perdonato” subito chi se n’è andato per sempre, consumando un pranzo a base di legumi e pesce. Così, a Mani, si comincia a colmare il vuoto creato dalla sua assenza.

Pubblicato il Lascia un commento

Portfolio – Martina Biasetti, Terre d’Acqua

Di Barbara Silbe

Sensazioni intime, primordiali, affiorano vibrando da queste immagini i cui protagonisti, oltre ai soggetti, sono gli elementi del Creato: acqua, vento, terra… Da loro sembra trarre energia ogni cosa inquadrata, ogni rappresentazione che l’autrice mette in scena sul suo palcoscenico. Le due protagoniste di questa storia sembrano cercare una connessione profonda con ciò che le circonda, per radicarsi nella realtà fisica, tangibile, e fondersi con l’universo in un equilibrio permanente. Nell’acqua si immergono, dal vento si fanno avvolgere, e calpestano il terreno in cerca di una strada che le conduca. Come nelle celebri quattro Allegorie di Jan Bruegel (due delle quali conservate alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, le altre due al Museo del Louvre), esseri umani e animali convivono in un Paradiso pittorico molto vario.   Accenna alla spiritualtà, all’essenza stessa della vita, la fotografia di Martina Biasetti, passando da metafore che alludono alla consapevolezza che ogni manifestazione della natura sia già parte del nostro essere.  Anche nella scelta di affiancare due scatti e creare questi dittici delicati, l’artista rimanda al dialogo tra noi e il luogo che ci ospita, quasi che, parlandosi così profondamente, si possano curare molte ferite.

 

“Sofia oscilla nelle acque. Le acque sono verdi smeraldo e riflettono la natura viva e traboccante che le sovrasta. Sofia galleggia serena nelle acque che la circondano, la sorreggono, la spingono e la respingono in un candido gioco di dolce abbandono. Poi, nel buio dietro le quinte, c’è Ofelia, circondata da un corpo liquido, pesante e opprimente, che lentamente la avvolge e la inghiotte. La morte di Ofelia non è mostrata in scena. È sola, lontana dalle luci del palcoscenico, dagli applausi e dalla vita mondana. Sott’acqua, dietro un velo, nel silenzio, Ofelia guarda il vuoto; vittima delle oscillazioni ingannevoli di quell’acqua verde smeraldo, o forse vittima di ingenuità e del suo essere donna, vittima della sua stessa morte che dall’ oscurità, la vede presente e sulla bocca di tutti solo nel momento della sua assenza”.

(Martina Biasetti)

 

 

Note biografiche

Martina Biasetti è un’artista nata a Parma nel 1983.

Ha studiato Belle Arti scegliendo la carriera d’artista come professione.

La fotografia di Martina nasce dal bisogno di aprire lo sguardo oltre l’ordinaria realtà che ci circonda, cercando di catturare la sfuggente poesia del quotidiano, in quei momenti vissuti nella sua vita di donna, di madre e d’artista.

Ne nasce una produzione artistica intima e personale, nella quale l’immagine poetica è messa in stretto rapporto con la realtà.

La natura, sempre presente nelle sue fotografie, si affianca all’essere umano, si fonde con esso, fino a inondarlo, in una visione estremamente romantica quanto familiare.

Martina ha cominciato la sua attività espositiva nel 2007, classificandosi come vincitrice e finalista in varie collettive.

Il suo lavoro è apparso in diverse pubblicazioni e collaborazioni.

Attualmente vive e lavora a Parma.