Il ritratto è la cifra di questo giovane autore dallo sguardo acuto, empatico, che sa catturare l’essenza dei soggetti, in un portfolio che integra con scene di strada armoniche e ben composte, declinate in tagli di luce che possono sorprendere. Mescola ritratti e scene di strada declinate in tagli di luce sorprendenti. Il bianco e nero è il suo linguaggio, che usa per evocare sensazioni, atmosfere oniriche o minimaliste, mettendo in risalto espressioni, luci e ombre che assolvono il compito di creare un impatto visivo decisamente forte. Inevitabile trovare analogie con la poetica dei film di Frank Capra, Fellini e Billy Wilder, contaminata ovviamente da influenze più contemporanee.
È cresciuto in un vivaio fertile, l’estro creativo di Giordano Rispo. Lui è figlio d’arte, ma non lo dice per timidezza, pudore, quasi che affermarlo potesse sminuire il suo valore quando si presenta a qualcuno. Si pensa sia tutto facile, per un ragazzo il cui padre è un attore affermato, invece spesso accade il contrario. Un genitore così fa ombra, e quell’ombra non sempre ripara, malgrado di certo abbia voluto farlo. Così, lui, crescendo, deve avere imparato a impegnarsi il doppio, schivare chi lo sottovaluta affidandosi ai luoghi comuni, a studiare, sperimentare, fare chiarezza nella confusione per scoprire una sua voce unica e originale, proprio influenzato da tutto quel talento che lo ha circondato fin da bambino.
Del mondo che incontra ama i volti, inquadra quelli familiari congelando in uno scatto istanti che sono affetti, memoria, rapporti indissolubili, e riporta questa sua capacità di interazione anche nelle relazioni casuali, quando gira per le strade di Napoli, la sua città, o viaggia lontano, tornando con dei close up come quelli che costituiscono ad esempio il suo portfolio africano. Ricordano i primi piani di Eric Lafforgue, di Pieter Hugo o i “Ritratti di Bamako” di Seydou Keita, eppure sono per lui ancora sperimentazioni che, col tempo, lo condurranno alla sua unicità. Sono sufficientemente certa che Giordano Rispo non sia (e non sarà) solo un fotografo. Il fuoco e la curiosità che lo pervadono lo spingono a esplorare in diverse direzioni: la comunicazione, la regia, la recitazione, ma la fotografia è un codice espressivo che di certo gli si addice e che lo guiderà, trasformandosi in qualcosa di importante, fondamentale, per il suo percorso.
Note biografiche
Mi chiamo Giordano Rispo, sono nato a Napoli il 5 dicembre del 2001 sotto il segno del sagittario. Ho fatto un percorso di studi classici per approdare poi all’università: sono iscritto a Scienze della Comunicazione, con indirizzo Cinema, all’Università di Napoli e a breve discuterò la tesi.
Ho lavorato come assistente alla regia sempre guidato da una grande passione per le immagini e per la fotografia. Oggi sto sviluppando dei progetti autonomi, scrivo e dirigo cortometraggi e documentari, uno di questi è in produzione e in fase di chiusura: un racconto dove si indagano le relazioni di coppia, dal titolo “Io sono io”, con protagonisti Francesco Vitiello e Fiorenza D’Antonio.
Stare di fronte al mare mi ha aiutato a capire la luce e come usarla, a valorizzare i contrasti e a infilarci in mezzo le persone. Ho scattato la mia prima fotografia quando avevo dieci anni. Usavo il cellulare, ma già mi dilettavo con interventi creativi e cose particolari. Poi ho usato una Polaroid instant camera e una Canon digitale. I miei genitori mi hanno nutrito molto in ambito artistico, tra film, libri e spettacoli teatrali, una bella culla che ha finito per alimentare la mia voglia di esplorare con la macchina da presa e con la fotocamera. Ho avuto una creatività sempre sollecitata ed esercitata. A 18 anni ero sul set del film di Paolo Sorrentino “La mano di dio”, fu la mia prima esperienza lavorativa e lì ho incontrato il fotografo di scena Gianni Fiorito. Sono rimasto colpito dalla sua umanità, in un set dove ogni minuto era prezioso e tutto era rapido, accelerato e militaresco, si fermò tanto tempo per parlare con me, influenzandomi molto.
Gli altri grandi maestri che hanno formato il mio sguardo sono Sebastião Salgado (vidi il film “Il sale della terra” quando ero sedicenne e poi mi studiai tutta la sua produzione). Lui mi ha mostrato la potenza della fotografia per raccontare il sociale, poi Alan Schaller che mi ha introdotto al lato estetico del giocare con la luce, Mimmo Jodice che mi ha lasciato la poesia con la quale cerca cose semplici per trasformarle in icone, David LaChappelle per il suo stile pop, la sua arte multidirezionale, e poi molti direttori della fotografia di documentari e film che sanno creare un bel connubio tra l’immagine e la narrazione.
Sono attratto dalla profondità, sia in fotografia che nella vita. Andare oltre la superficie delle cose è per me importante. Quando guardo un film, quando scatto, mi soffermo, analizzo, non voglio che nulla sfugga. Dei grandi fotografi mi piace immaginare il dialogo dietro alle foto, la luce che hanno inseguito, l’empatia che traspare dai soggetti. Dai loro sguardi si svela l’intesa che c’è stata tra loro. Mi interessa riprendere ciò che non viene notato a un primo sguardo, usare le ombre per valorizzare la luce, cercare quest’ultima nel buio. Da grande vorrò sempre fare un parallelo tra questi due mondi, la regia e la fotografia. L’una completa l’altra. Voglio portare in cinema nella fotografia e viceversa.

Barbara Silbe vive e lavora a Milano. Co-fondatrice e direttore responsabile di EyesOpen! Magazine, fin dagli anni Novanta scrive di arte, fotografia, tecnologia,cultura e turismo anche sulle pagine del quotidiano il Giornale. Ha inoltre collaborato con varie testate, tra cui Style, Il Fotografo, Espansione, Digitalic, Donna Moderna. Anche i suoi lavori fotografici seguono gli stessi percorsi e sconfinano spesso in altri. È specializzata nel ritratto e nel reportage di viaggio.
Ha un blog che si occupa di fotografia ospitato sulla home page del sito del quotidiano Il Giornale