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Portfolio – Giacomo Bruno, Más campero que el mate

Di Barbara Silbe

Lo stile di Giacomo Bruno è un misto di semplicità ed evanescenza, di concretezza e realismo magico, di opposti insomma, che sono poi quelle spiazzanti caratteristiche che fanno restare in mente il suo lavoro. Mi ha scritto qualche tempo fa, e lo pubblico con colpevole ritardo, ma per contro ho avuto settimane per lasciare sedimentare il suo progetto e comprenderlo come merita. L’autore ci racconta una storia lontana, che però appartiene a tutti noi più di quanto crediamo. Parla di un contadino tenace, orgoglioso, che ci accoglie nella sua umile casa posta in un luogo complicato, duro, impregnato di forze naturali e soprannaturali. Da queste parti, venire al mondo è già un miracolo. La sua vita è svelata da rughe, espressioni o piccoli dettagli, da inquadrature dove gli occhi dei soggetti ci accompagnano silenziosi nel mondo che li circonda, come ci si aspetterebbe da un libro di Isabella Allende o Gabriel Garcia Marquez. Veniamo condotti uno scatto dopo l’altro in un posto dove sembra sempre che debba accadere qualcosa e, nell’immobilità apparente, persone e animali convivono in simbiosi. Gli uni servono agli altri, senza parole superflue, come in qualunque cultura contadina. Poche cose costruiscono una giornata, un’esistenza senza fronzoli, sospesa in una dimensione onirica accentuata da paesaggi dai colori desaturati, o dalle pose dei soggetti che sembrano in attesa rivelati da interessanti giochi di luci ed ombre. I giorni e le notti seguono il ciclo perpetuo di una poetica narrazione, che il fotografo stesso spiega con queste parole:

Credo che ad ogni area geografica, nelle sue connotazioni e conformazioni distintive, corrisponda un archetipo di uomo che la abita. Se esiste un luogo in cui questo è particolarmente vero , ho scoperto, è la Pampa Argentina. Luoghi di immensità, di sconfinata estensione. I suoi abitanti, in certa misura, coincidono in queste caratteristiche. Uomini lineari, semplici, dallo stoicismo e pragmatismo assoluto. Una serie di “investigazioni”, più simili a un dito puntato alla cieca sulla mappa, mi hanno portato a scegliere un luogo piuttosto sconosciuto anche nella stessa Argentina: Las Islas de Las Lechiguanas, provincia di Entre Ríos. Questa aleatorietà, forse volontariamente, si applica anche alla storia, che potrebbe coincidere per similitudine con mille altre nel Paese.

¡Soy más campero que el mate!, letteralmente “Sono più campagnolo dell’erba mate!” (erba della rituale omonima bevanda, diffusissima in tutta l’Argentina), è un’espressione che ho sentito più volte ripetere, in tono fiero e pieno di orgoglio, come a descrivere la dimensione di vita tradizionale più nobile e degna possibile. Il protagonista della serie è un autentico gaucho, Buenaventura Piquet, detto Grucho. Nato nel 1958, come lui stesso ama recitare in una tradizionale Payada (versi rimati e cantati), “en la orilla del Rio del Paranà y del Rio del Ibicuy”.  È infatti la diramazione di questi due fiumi che delinea e origina l’isola de Las Lechiguanas. Il Paranà è un fiume antico. Nasce in Brasile al confine fra i tre stati brasiliani di Minas Gerais, São Paulo e Mato Grosso do Sul. Percorre oltre 4000 chilometri prima di arrivare in Argentina e incontrare l’Ibicuy. 

L’acqua porta con sé tutta la magia e il misticismo antico delle popolazioni native e delle terre da cui origina. Rimescola, deposita e impregna le rive con tutta l’energia del fiume, della sua forza vitale, naturale, soprannaturale. La vita sull’isola è solitaria, spartana, senza comfort. Sono in pochissimi ormai quelli che continuano ad abitarci. Ancora meno sono quelli che lì sono nati, sopra la nuda terra, quando ancora si raggiungeva la terraferma attraversando il fiume in canoa, trascinando il cavallo a nuoto per poi fare rientro allo stesso modo con una levatrice, che potesse assistere le donne nel parto e nei primi giorni di vita del neonato.

Così è nato Grucho, sull’isola della Lechiguanas. Nell’esatto luogo della sua nascita ora rimangono solo alcune pietre fondali dell’antica casa e la tomba dei suoi genitori che riposano proprio lì dove ebbe inizio la sua vita. Grucho questa terra la conosce palmo per palmo, letteralmente. Il suo legame ad essa è profondo e viscerale, al punto che è così scontato per lui come per noi lo è avere sensibilità nelle estremità del corpo, nelle dita dei piedi o nei capelli. Può sentire ciò che succede sulla sua terra. Sa sempre dove si trovano le sue greggi di bestiame, quando qualche animale è ammalato, o esausto per la fatica dopo aver provato fino allo strenuo delle forze a liberare le zampe dal pantano, chino per bere dal fiume. Lui li raggiunge, a volte trascorre giorni insieme agli animali, ne ha cura, li cura,  finché non ritornano in forze.

Richiama a sé i cavalli che vagano liberi in un terreno sconfinato, spesso a svariati chilometri di distanza. Usa un fischio e qualche verso incomprensibile, ma la maggior parte delle volte sono troppo lontani perché possano rispondere al solo udito. Eppure, assertivi, fanno ritorno. Tutto sull’isola esiste sopra un confine labile tra reale e surreale. Come il “ceibo magico”, un enorme albero del corallo dotato di attributi legnosi dalle sembianze umane. Considerato sacro e magico da tutte le generazioni di cui si ha memoria. Capace di miracoli benevoli e di perfette maledizioni, secondo le circostanze e le intenzioni degli avventori.

Attraverso questa serie di fotografie Grucho ci presenta il suo mondo. Ci accoglie dentro casa, nel suo quotidiano. Ci accompagna nei luoghi dove lavora, che frequenta. Ci presenta gli amici e le persone che incontra. Un po’ attraverso la sua figura, un po’ attraverso i suoi occhi. E un po’ attraverso le sue parole.

 

Aqui nacì compañero,

acqui, ché, me reì.

A la orilla del Paranà y del Río

del Ibicuy.

Crecieron todas mis ansias

de campero y islero.

Soy el gaucho màs certero

que hubo en este lugar.

Recorriendo los parajes

que usted los ve,

por aquì.

En la orilla del Paranà

y del Rio del Ibicuy.

(Grucho Piquet)

 

Note biografiche

Giacomo Bruno è un fotografo italiano nato nel 1991 e residente a Reggio Emilia. Realizza progetti personali sulla vita, l’artigianato e l’agricoltura, fornendo approfondimenti su come le aree rurali si sviluppano e sopravvivono in tutto il mondo. Ha iniziato la sua carriera come assistente fotografo subito dopo la scuola superiore, lavorando in due studi di fotografia pubblicitaria e di prodotto fino al 2013, poi ha deciso di prendere la sua strada seguendo la passione per i viaggi e la sua vera vocazione: la fotografia di ritratto e il reportage. Ha lavorato a numerosi reportage in America Latina, Cina, Giappone, Sri Lanka, Sudafrica e i suoi progetti sono stati pubblicati sulle principali riviste internazionali, come il Corriere della Sera e Le Monde.fr, ma anche su editoriali e riviste come Perimetro, C41 Magazine, Mia Le Journal, SlackTide Mag, Zeitjung, Gräfe e Unzer, The post internazionale, Erodoto108 e altri. Ha collaborato con importanti agenzie pubblicitarie internazionali, come McCann Worldgroup, Merchant Cantos, Brunswick Group, Esse House e K48 e con importanti aziende locali come VENTIE30 e The Block MultiVisual.

 

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Portfolio – Margherita Nardi, Il respiro delle emozioni

Di Barbara Silbe

Respirare è un’azione che ha a che fare con la nostra stessa sopravvivenza. Senza aria, non c’è vita. E’ un dentro connesso con il fuori, contrazione e rilassamento continuo del nostro corpo in armonia. Lo sa bene Margherita Nardi, che su questo concetto ci ha costruito un progetto fotografico intimo ed emozionante. Nascondendo dietro allle immagini una serie di simbologie, alcune esplicitamente esternate, altre no. Per scelta, per indole, l’autrice preferisce lasciare spiragli aperti alle interpretazioni, lancia messaggi che non è indispensabile noi tutti comprendiamo, quasi che la fotografia fosse più un dialogare con se stessa per raggiungere la consapevolezza alla quale accenna nel suo testo qui sotto. E’ un fatto che quando non siamo sereni o ci sentiamo in pericolo, il respiro cambia, viene trattenuto, accelera. E’ correlato alle tensioni, all’ansia che ci attraversa per varie ragioni. Si fanno corsi per respirare e liberarsi dallo stress, quasi che questa azione ci riportasse al ritmo ancestrale che ci appartiene: nascita, esistenza, morte, e innumerevoli sfaccettature nel mezzo che Margherita Nardi prova a raccontare: c’è l’aria pura intorno a un albero, o un brivido sulla pelle, un vetro che si appanna, l’insonnia su un cuscino carezzato da una mano, la serenità di un sorriso che si affaccia al sole della finestra. Affidando la sua idea a gesti di altri protagonisti, lei, autrice-soggetto, per riprende fiato e respirare la sua stessa libertà ha dovuto infilarsi dentro a diversi passaggi, usare i polmoni, lo sterno, il cuore e il cervello tutti legati da un filo stretto.

Queste le sue stesse parole:

Il respiro è un atto inconsapevole e spontaneo. Un meccanismo insito nella nostra esistenza, a cui non serve un input di azionamento, e a cui non diamo troppo peso. Respirare è un concetto chiaro e definito per chiunque, ma quante e quali accezioni può assumere nel corso di una vita? Alle mie fotografie ho affidato il compito di proporre una risposta a questa ricerca di senso e significatività.

Ho iniziato con una profonda introspezione: ancora fresche sono risultate per me, nel cuore e nella mente, le ferite di quel “mio” momento storico, in cui avevo un respiro corto, affannoso e pesante. Un costante senso di oppressione ha precluso ogni mia libera scelta per un paio di anni. Quasi apnea. La consapevolezza delle difficoltà e un crescente grado di accettazione del mio dolore, sono state bolle d’ossigeno che mi hanno riportata in superficie. Riemergendo, il mio primo respiro è stato energia pura. Bocca aperta, aria limpida.

Ho proseguito la ricerca porgendo ad alcune persone il mio dubbio di significato. Ho raccolto le loro testimonianze. Sentivo l’esigenza di capire se anche per gli altri esistesse una stretta connessione tra il respiro e le emozioni. Ho chiesto loro di fermarsi, in questo mondo sempre più frenetico, per ascoltarsi, e di tradurre in parole un concetto tanto facile da comprendere, quanto personale.

Ho capito che ognuno recupera il respiro secondo la propria spiritualità e necessità, proprio come potenzialmente diverse possono essere le strade che portano noi, singole entità del mondo, ad uno stesso obiettivo.

Ho capito che il respiro può rivelarsi come una preziosa chiave enterocettiva: aumentando il grado di consapevolezza e di ascolto del nostro intimo, possiamo, forse, percorrere la nostra strada più serenamente.

Ho capito che il respiro ha una propria frequenza e intensità, ovvero una forza diversa in ognuno di noi.

Capisco, ogni giorno, che il respiro è un’intima connessione tra mente e cuore. Un legame tra conscio e inconscio che ci attraversa tutti e che ci accompagna nel nostro quotidiano, e a cui, purtroppo, non sempre riconosciamo la giusta importanza. Il respiro non è solo un susseguirsi di attimi, ma porta la nostra presenza nella storia del tempo, senza esserne mai stanco.

Note biografiche

Mi chiamo Margherita, sono di Monza ma vivo e lavoro a Milano.

Conseguita la laurea in economia e commercio, ho deciso di fidarmi dell’istinto e di perseguire la mia passione per la fotografia. Dopo aver frequentato i corsi presso l’Istituto Italiano di Fotografia, ho iniziato a lavorare come assistente e poi come fotografa professionista. Sono specializzata in fotografia commerciale e industriale, reportage aziendale e ritratto.

Mi ritengo una persona inguaribilmente precisa, fortemente riolutiva e determinata. La mia ambizione mi spinge a continuare a studiare e sperimentare, anche nella ricerca introspettiva e artistica, per portare la mia fotografia a un maggior livello di espressività.

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Porftolio – Martín Ordeñana. La vita degli artisti circensi

Pubblichiamo questa serie di ritratti agli artisti del circo Armando Orfei, realizzati da un fotografo di origine argentina che vive e lavora nel nostro Paese. Lui è Martín Ordeñana, la sua indagine visiva racconta il quotidiano di giocolieri, equilibristi, clown, domatori, venditori di zucchero filato e operai addetti a montare il tendone di questo spettacolo itinerante d’altri tempi. Da tutti i protagonisti, da gesti e sguardi regalati alla fotocamera, emergono una grande umanità, la passione, a volte l’allegria, la serietà e l’impegno con in quale si preparano. Un senso tangibile di comunità, quasi fosse una grande famiglia allargata, li accompagna nel loro sacrificio per divertire il pubblico in ogni località dove si fermano. Come introduce lo stesso autore, “Qui si va, e si torna, per trarne un certo conforto e un sorriso. Le luci si spengono, e sulla ribalta viene il presentatore che, con voce trionfale, annuncia: Signore e signori, ecco a voi il circo”. Il fotografo ha voluto concentrarsi su singole storie che, radunate, formano un esauriente racconto di quelle atmosfere. Si è mosso dietro le quinte e sulla scena, facendo arrivare fino a noi entrambi i volti di un mondo itinerante complesso e, talvolta, controverso.

 

NOTE BIOGRAFICHE

Sono nato e cresciuto nella cosmopolita Buenos Aires, dove ho respirato sin da piccolo un’atmosfera carica di stimoli innovativi e culture diverse. 
Alterno il lavoro fotografico a quello di ricerca nel campo delle arti visive. Due aspetti complementari della mia grande passione per le immagini. Scatto dopo scatto, sposto il mio sguardo lasciando libera l’immaginazione e cercando di raccontare le storie che si nascondono dietro i volti, le linee fluide di un corpo, le curve di un paesaggio, le geometrie di una città.
Dai ritratti ai reportage, attraverso l’obiettivo della fotocamera, provo a raccontare il mondo così come lo vedo, con uno sguardo sincero e libero da condizionamenti.

Ho studiato Grafica e Comunicazione alla Scuola Internazionale di Grafica a Venezia dove ho anche seguito un corso fotografico analogico e sullo sviluppo in camera oscura.

Ho seguito il corso “Seeing Through Photographs” al Museum of Modern Art – MoMA

Ho partecipato, come docente di Fotografia, all’Université Paris Ouest Nanterre La Défense, trattando l’argomento: ‘La photographie et la Création de Valeur pour l’entreprise et pour le consommateur’.

Le mie fotografie sono state pubblicate su diverse riviste e testate nazionali ed internazionali tra le quali:
 Vouge Italia, Elegant Magazine, Fashion, Portrait, Procne Magazine, Level Magazine, Futbol, La Repubblica, Corriere della Sera, La Nacion, Il Messaggero, Il Gazzettino, Il Friuli, TeleFriuli, Rai FVG. Alcune, invece, sono state utilizzate nel Film “Encintados” di Gianfranco Quattrini -Proyecto Ganador del Concurso de Largometrajes de Ficción del Ministerio de Cultura del Perú. Una coproduzione peruviana-argentina del 2020

RICONOSCIMENTI E PREMI AWARDS:

2022 – IPA International Photography Awards
Honorable Mention in the 2022 edition of the International Photography Awards

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Portfolio – Paolo Di Clemente, Ronda di carità

Nell’inverno della pandemia, l’autore ha trascorso quattro mesi a seguire le azioni sul territorio dell’associazione Caritas “Ronda Carità e Solidarietà Milano ODV”, uscendo con loro la notte per documentare gli interventi di sostegno ai senzatetto della città meneghina. Ricorda il freddo, i cinema del centro storico chiusi e le strade deserte a causa del coprifuoco imposto per tutelare tutti i cittadini contro la diffusione del virus, gli interventi per portare bevande calde, biancheria intima, alla ricerca di persone avvistate e segnalate dai cittadini, insistendo per lasciare loro cibo, sacchi a pelo, aiuti di ogni genere.

“Stiamo parlando di oltre dodicimila persone – racconta Paolo Di Clemente – che trovavamo raccolte ai piedi delle vetrine, nei parchi, sulle panchine, agli angoli delle vie di Milano. Sono senzatetto, che ho scelto di inquadrare raccontandone la loro routine quotidiana, vissuta ai margini della società, separati dai milanesi come due universi distinti, fatti di regole e cadenze proprie, che si affiancano su binari paralleli che mai si toccano. A fare da ponte, ci sono i volontari, che tendono la mano, con pazienza, rispettando i tempi e le dinamiche di queste persone che quella mano, nella maggior parte dei casi, la rifiutano o la temono. Ho voluto conoscere e indagare questa realtà coi miei occhi, stanco di rappresentazioni stereotipate e disturbato dalle foto scattate dal marciapiede di fronte col teleobiettivo, che finiscono per ledere la dignità dei soggetti, per strumentalizzarli, senza una sincera volontà di conoscenza. Il mio desiderio è stato quello di incontrare questi uomini e donne che vivono per la strada e tra gli alberi dei parchi urbani, così come i volontari e gli operatori civili che lavorano tra frustrazione e sorrisi, nel tentativo, a volte boicottato dal sistema stesso e dalla burocrazia, di riconoscerli, nominarli, censirli, aiutarli e, nel migliore dei casi, reinserire qualcuno di loro. Con le mie fotografie ho cercato di prestare attenzione, chiamarli per nome, considerarli come persone, rompendo il bozzolo che li protegge dall’umiliazione dell’essere sempre giudicati, e ho voluto narrare senza retorica i gesti di chi li aiuta e li assiste, in due distinti piani di osservazione”

 

Note biografiche

Mi chiamo Paolo Di Clemente, sono nato a Milano nel luglio del 1971. Negli anni ’90 ho collaborato prima come assistente nello studio del fotografo Gik Piccardi per servizi di moda e beauty, e in seguito ho lavorato come fotografo nello stesso campo, in parallelo alla mia professione di disegnatore di fumetti e illustratore che continua ancora oggi per la Sergio Bonelli Editore e altre realtà internazionali. Sono attratto dalle storie e amo la foto documentaristica e di réportage, il ritratto, e mi interessano tutte le declinazioni della figura umana.

Instagram: @paulmartdicle

www.paolodiclemente.myportfolio.com

 

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Portfolio – Monica Testa, Habito

Un lavoro poetico e documentario, quello di Monica Testa, un viaggio segreto all’interno di un mondo – quello di un convento – quasi inaccessibile a molti di noi. Il suo osservare è stato discreto, eppure partecipe, quasi come se lei fosse parte di questo gruppo di suore che vivono nella semplicità del quotidiano. Ben reso, dal punto di vista fotografico. Ben raccontata la storia. Fatta di similitudini, confronti, assonanze, dettagli. Un approfondimento concepito nell’alternanza tra bianchi e nero e colore, visioni d’insieme e ritratti, che va ben al di là dell’esercizio ed è degno di sostenere l’accostamento con progetti di indagine dei più grandi nomi della fotografia. Come scrive l’autrice nella sua introduzione, la sua primaria volontà era quella di preservare la memoria di questa piccola comunità religiosa che sta scomparendo. Lo ha fatto mettendo a loro disposizione il suo tempo e il suo sguardo, per una lettura raffinata, delicata, premurosa su ciascuno dei soggetti.

(Barbara Silbe)

 

HABITO

Dal latino : abitare, portare abitualmente, essere solito tenere, ma anche stare, trovarsi, trattenersi, fermarsi…

Il progetto è nato con l’intento di tenere viva la memoria di una piccola congregazione religiosa: le “Ancelle della Provvidenza per la salvezza del Fanciullo” della quale sono ormai rimaste le ultime sei suore.

Ho voluto onorare le loro vite fatte di dedizione al bene, rendendole, al contempo, protagoniste attive.

Questa Congregazione religiosa ebbe umili origini e un graduale sviluppo a Milano, nell’ultimo decennio del secolo XIX, per opera del sacerdote milanese Don Carlo San Martino; nel piccolo gruppo veniva coltivato lo spirito di pietà, umiltà e obbedienza, non disgiunto da una grande abnegazione a servizio dei fanciulli poveri e abbandonati.

Le Zie, come le chiamavano le numerose piccole vite fragili che da loro hanno ricevuto accoglienza, cura, educazione, oggi, sono tutte a un bel traguardo di vita e ancora vivono umilmente per insegnare a tutti noi il profondo senso di devozione e di disponibilità verso gli altri.

Ho scattato fotografie che diventano momenti preziosi, intimi, soprattutto veri, in un mondo che sempre più tende a dimenticare chi ha dato la vita per gli altri: pregando, insegnando, costruendo.

HABITO è un omaggio a delle persone meravigliose che possono solo essere l’esempio da imitare e da seguire; è il luogo dei ricordi di chi ha fatto della Fede la propria vita e diventa anche il luogo dove trasmettere questi ricordi, un testimone da passare alle generazioni future, per non dimenticare e per continuare a coltivare l’amore verso il prossimo e l’amore per la vita.

 

Note biografiche

Mi chiamo Monica Testa e sono nata a Bergamo.

Dopo gli studi artistici ho iniziato a lavorare come fashion designer per una grossa azienda che mi ha permesso di approfondire e lavorare nel mondo grafico e stilistico. Un lavoro impegnativo e gratificante, grazie al quale ho avuto la possibilità di viaggiare tantissimo per il mondo, conoscendo gente multietnica, arricchendomi enormemente dal punto di vista culturale e personale.

Nel 2000 sono diventata brand manager di un noto marchio di abbigliamento tecnico e collaboro con persone incredibili che compiono eventi straordinari e che non si pongono limiti a nulla. Da allora cambia anche la mia visione della vita e dopo pochi anni lascio tutto per lavorare come freelance per i miei progetti personali.

La fotografia mi appassiona da sempre e a tal punto che non posso più farne a meno, dopo diversi corsi e lo studio dei più grandi fotografi della storia, qualche tempo fa mi sono decisa a iscrivermi all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano: un’esperienza costruttiva che mi ha fatto crescere tantissimo a livello tecnico e creativo.

Amo scattare ritratti, osservare tutto ciò che mi circonda e raccontare storie attraverso l’occhio del mio obiettivo.

Mostre personali:

“Presenza nell’assenza” Hotel Art Margutta, Roma 2016.

“Once upon a time” Caffè letterario Indisparte, Bergamo 2018.

“I mille di Sgarbi” Magazzini del sale , Cervia 2020.

In my town (mostra collettiva ) CFC centro fotografico, Cagliari 2020.

Pubblicazioni:

Rapporto Italia 2015

Nell’attesa del tuo prossimo respiro (2016)

Rapporto Italia 2017

Nei tuoi occhi (2018)

HABITO (2021)

 

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Portfolio – Sara Peccianti, Dal mio cuore

Il progetto di Sara Peccianti, giovane fotografa il cui nome d’arte è La Sullivan, nasce di certo da un dolore. Forse più di uno. Approccio molto femminile alla fotografia, il suo, che viene utilizzata come mezzo di indagine interiore e ponte per attraversare qualche ostacolo. L’autoritratto è per lei il corrispettivo di un’esplorazione, indagine oggettiva del suo sentire, di cose subite o vissute in un recente passato. Il linguaggio che usa è persuasivo, immaginifico, materico: il cuore d’animale sanguina tra le sue mani, ce lo mette di fronte e ci costringe a restarle di fronte. Procede per metafore, allusioni e rimandi di grande impatto visivo, che le servono per analizzare i suoi stessi pensieri e inscatolare quella remota sofferenza. La vicenda che si srotola un fotogramma dopo l’altro è quella di un amore finito. Ogni tassello è il frammento di un vetro che è andato in pezzi ed è rimasto sul pavimento. L’autrice finisce quasi per calpestarlo: nel suo intervento riportato qui sotto dice “ora è tempo di andare”. Come in un processo di purificazione, fa un salto ed è oltre. E’ l’allegoria della vita stessa, dove emozioni di gioia, rabbia, turbamento, mancanza, liberazione sono tappe di una storia narrata per immagini che dicono la verità e, proprio per questo, sono efficaci.

 

“Questa è la mia storia, il mio naufragare

Ogni notte il mio cuore sboccia e fiorisce, lo sento pulsare sulla dolente canzone dell’amor perduto.

Tutto fluisce e scorre. Sangue, lacrime, tempo.

Fiumi di sogni sgorgano, sono viva eppure annego, mentre la primavera stenta ad arrivare.

 Un fiocco di neve si arena, danza l’inverno piangendo su petali secchi, sullo spettro di un tuo sorriso.

Amare e lasciare che tutto accada, ora è tempo di andare. Il mio cuore è qui, esposto.

 Te lo mostro, lo tengo tra le mani, chiuso in questo cerchio, senza rimpianto, senza rimorsi.

Trovando in me, finalmente, un porto dove approdare”

Note biografiche

Sara Peccianti, in arte “LaSullivan”, nasce a Milano nel 1992 (c’è chi giura di averla vista nascere già con i capelli blu). Da sempre amante dell’ arte intraprende gli studi di Beni Culturali all’Accademia di Brera. Conseguito il diploma capisce che una delle sue più grandi passioni è la fotografia e per alcuni anni affianca il lavoro nel settore retail con corsi riguardanti il campo fotografico. Da qui Inizia a produrre i suoi primi autoritratti perchè sente l’esigenza di raccontare se stessa nella sua continua evoluzione tramite diverse tecniche sperimentando digitale, analogico e polaroid. Nel 2019 frequenta il biennio presso l’Istituto Italiano di Fotografia, vincendo anche una borsa di studio. Finiti gli studi inizia a lavorare come fotografa professionista condividendo uno studio fotografico e si specializza nella ritrattistica.

Chi la conosce sa che due delle sue paure più grandi sono la monotonia e la banalità ed è per questo che decide di ritrarre principalmente persone che non hanno paura di mostrare se stesse per quello che sono nella loro unicità.

LaSullivan (Sara Peccianti) –  lasullivan.ph@gmail.com

Sito: https://www.lasullivanph.it

IG: https://www.instagram.com/lasullivan.ph

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Portfolio – Antonello Ferrara, Il porto straziato

Testo di Barbara Silbe

Antonello Ferrara si affida a un colore intriso di simboli per parlarci di una ferita. Quella che ha subito la sua terra e, di conseguenza, lui stesso. Nella produzione iconografica che è frutto di perlustrazioni in situ, concettualizza la rabbia, il pericolo, il dolore, perfino la passione, in un filtro rosso che ricopre ogni inquadratura. Un drappo che cela, eppure mette accenti con l’intento di attirare la nostra attenzione. Ogni tappa della sua storia è affidata a questo velo rubino, steso su un pezzo di Sicilia che ha subito violenze ed è stato dimenticato. È la cronaca, la documentazione di industrie che hanno cambiato il profilo di un luogo caro, Marina di Melilli (provincia di Siracusa), che si fa espressione artistica per un messaggio ancora più potente.

Rosso è un colore che urla, come una sirena o una rivoluzione. È intenso, pietrificato, alchemico come una pozione. Quel vedo-non vedo, fa venire voglia di entrare in ogni frammento del suo racconto, come se la nostra mano potesse scostare il sipario per indagare in profondità come si sono svolti fatti e misfatti. L’autore a quei luoghi appartiene, li ha visti deperire e ha assecondato l’istinto a denunciare quanto è accaduto usando il suo obiettivo.

Lo ha fatto con il riguardo e il rigore che caratterizzano la sua indole delicata, posando lo sguardo sulle case e sui dettagli trascurati di un paese fantasma, dove sarebbe proibito entrare, dove nessuno abita più quei muri che sono state case. Un cane randagio si è appropriato degli spazi decrepiti, un bagnante ostinato torna lì per riposare, lui li incontra nel suo perlustrare e li include, trasformandoli in personaggi recitanti di questo avulso palcoscenico.

Si muove in punta di piedi, entra tra le macerie inquinate, mette a fuoco paesaggi desolati che un tempo erano ricordi e appartenenza… eppure, questo rosso tagliente che ha scelto per comunicare con noi, mi ha ricordato uno degli artisti più complessi del Novecento: il viennese Hermann Nitsch, il padre dell’Azionismo oggi esposto presso lo spazio Oficine 800 alle Fondamenta di San Biagio, Venezia, per una vasta celebrazione nell’ambito della Biennale d’Arte. La sua ricerca pittorica è una sorta di ramo più duro della Body Art, dove tra reale e metafora, tra sacro e profano, mescola il sangue con la pittura in un rituale liberatorio e dirompente.

Ancestrali rimandi, che hanno un impatto significativo sulle nostre percezioni, emozioni e fisicità. L’umanità si è evoluta dando la priorità al rosso del fuoco, alla lava dei vulcani che portano distruzione e rinascita. Quello di Ferrara è il rosso primordiale usato da Anish Kapoor, è il pigmento primario delle pitture rupestri, è quella tonalità densa di vibrazioni che Mark Rothko ha reso vivo come un canto di luce. È, ancora, messaggio politico, presa di posizione netta nei confronti dell’incuria che ha ridotto in brandelli un luogo amato. Bandiera rossa rivoluzionaria, emozionante, la sua, generata dalle immagini e dal suo pensiero.

Note biografiche

Nato a Taranto nel 1967, lavoro nella Marina Militare Italiana dal 1984. Ho ricevuto in dono nel 1978 una macchinetta fotografica AGFA POCKET con la quale ho iniziato a fare i primi scatti. Ho cominciato a stampare in proprio utilizzando un progetto proposto nel “manuale delle giovani marmotte”. Utilizzando una scatola di scarpe, inserendo un’intercapedine con un buco al centro dove posizionare il negativo, una lampadina all’interno di essa, era possibile stampare su carta fotografica fotosensibile posizionata nel fondo interno della scatola. Visti gli alti costi economici e dal momento che nessun adulto che mi aiutava, sia nel migliorarmi che nel confronto, ho sospeso le prime esperienze fotografiche.

Da quando ho comprato il primo smartphone ho ricominciato a fotografare. Nel 2017, durante un viaggio in Turchia, ho scattato delle foto con un iPhone5. Un amico sacerdote invia una foto ad un concorso su Twitter per la pagina domenicale del sito della rivista cultura del Corriere della Sera. La foto viene selezionata e pubblicata nella homepage del sito. Vedendo i vari commenti e complimenti su Twitter decido di impegnarmi nella fotografia comprando una Olympus Om 10 III con un obbiettivo Pancake 12/40. Ho poi deciso di approfondire con corsi, workshop, concorsi e varie collaborazioni formative.

Con una modalità sporadica ho avuto modo di confrontarmi sui miei portfolio con Silvano Bicocchi, Antonio Biasucci, Yvonne de Rosa, Fabiola di Maggio, Salvo Zito, Daniela Sidari, Barbara Silbe, Santo Di Miceli, Marco Rigamonti, Laura Petrillo, Alessandra de Pace, Steve Besson. Alessandra Sanguinetti (lettura Magnum), Amber Terranova (lettura Magnum).

Ha svolto tre lezioni “one to one” su Street phography con Eolo Perfido.

Sono socio di Magazzini Fotografici di Napoli, “la fototeca Siracusana” a Siracusa, “2 Lab Catania”.

Sono membro del Collettivo TIFF di Piacenza.

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Reportage – Ugo Panella: Grecia, le prèfiche di Mani

Ugo Panella è uno dei migliori fotoreporter italiani, attivo in molti Paesi del mondo fin dagli anni Settanta. Qui trovate la sua biografia completa.

Ci ha scelti per diffondere un approfondimento potente, dedicato a una tradizione che sta scomparendo, con foto che sono accompagnate da testi suoi e della giornalista Melissa Corbidge. Siamo molto grati a entrambi.

Di Ugo Panella

Nella parte centrale del Peloponneso si protende verso il mare la regione di Mani. Un territorio fatto di montagne brulle, terreno pietroso, torri di avvistamento che guardano il mare Egeo di un blu intenso. Oltre la rudezza del paesaggio, sopravvive una tradizione antica che accompagna i morti in una cerimonia rituale che comprende litanie, pianti, urla e ricordi di frammenti di vita del morto, recitate da donne molto anziane. Sono le “prèfiche di Mani”. Una tradizione che nasce dall’idea che il dolore dei parenti venga attutito da queste rappresentazioni plateali che le prèfiche recitano per tutto il tempo dell’esposizione del defunto alla vista di chi viene a portare le condoglianze alla famiglia. Melissa Corbidge, una giornalista esperta di cultura greca, propose la storia a Marie Claire Italia che accettò di produrre il reportage. Partimmo per Atene e da lì, prendemmo una macchina all’aeroporto ed arrivammo dopo qualche ora di comodo viaggio nel paesino di Gerolimenas. C’informammo se nei paesi vicini vi fossero dei funerali in programma ma nulla era previsto. Passavano i giorni, eravamo in contatto con il pope locale che avrebbe dovuto avvertirci nel caso fosse morto qualcuno. Niente da fare. Un pomeriggio, tanto per far trascorrere il tempo, ci segnalano una vecchia prèfica, molto nota nella regione, che potevamo intervistare e fotografare. Andiamo a conoscerla e ci accoglie sotto un pergolato. Ha novant’anni ed è cieca. Inizia a raccontare una lunga storia che Melissa mi traduce… e ad un certo punto si interrompe e, dopo un lungo silenzio , dice che non passeranno 24 ore che nel paese si piangerà molto. Finisco di fotografarla, la salutiamo e torniamo nel nostro alberghetto convinti di aspettare ancora altri giorni vuoti.
Alle 10 di sera chiama il pope e ci dice che da Atene stanno arrivando una coppia di anziani morti in modo tragico. Tornano nel loro paese di origine accompagnati dai figli. Lei morta a 80 anni per un tumore e lui, a 85 anni, due ore dopo, si è sparato con il fucile da caccia perché incapace di sopravviverle. La profezia della prèfica si era avverata dopo poche ore.

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Di Melissa Corbidge

Lezione di pianto

Terra e sasso, carne e ossa, femmina o maschio: c’è una terra ai margini dell’Europa dove è ancora libero di manifestarsi un grande potere delle donne, quello di entrare e uscire dal magma delle loro emozioni. E dove quel potere è messo al servizio di una divinità onnipresente, la stessa che ha impedito agli dèi olimpici e al Dio unico di Cristianesimo e Islam di piantarvi radici profonde. Non sono ammesse mediazioni nel micro-universo arcaico di Mani, estremo avamposto del continente greco a sud, dove gli antichi hanno collocato la “bocca dell’Ade”. Su questo territorio/fortezza in fondo alla penisola mediana e più angusta delle tre che concludono in basso il Peloponneso, il dogma cristiano è approdato – ma solo per sfiorarlo – con mille anni di ritardo rispetto al resto del mondo ortodosso. Forse perché quaggiù è difficile credere davvero in una vita futura e migliore quando già quella presente non è che duro travaglio, con la notte e il maledetto inverno sempre in agguato, a segnare la fine del giorno o di una stagione più mite. Così, dice papa Yorgos, il pope, è sempre dietro l’angolo la morte, momento conclusivo di un altro ciclo (stavolta l’esistenza) che, proprio al pari della nascita, stabilisce un contatto tra il dentro e il fuori, il visibile e l’invisibile, tra l’ordine, insomma, e il caos.

In una società dominata dagli uomini, organizzata all’ombra di case/torri che la proiettano tanto più lunga e scura quanto maggiore è la statura sociale dei rispettivi padroni, tocca alle donne, creature dall’ombra “sottile” – insinuano da queste parti – affacciarsi sulla condizione ignota, e in quanto tale ostile, del trapasso. Loro sole sanno come affrontare il vuoto. A loro tocca ristabilire la continuità tra il “prima” e il “dopo”, e trasformare il dolore individuale in pianto collettivo e quel pianto in un canto – il moïroloi –  triste come un lungo addio. Madri, figlie, spose, cugine, zie, cognate, o lontane parenti che siano, soltanto le donne i morti li accarezzano, li profumano e li vestono affinché possano affrontare con decoro l’esilio definitivo. A loro, che con dolore partoriscono, spetta l’ultima parola.

Loro sono le moïroloistres, rivelatrici della moïra – il destino –, interpreti dei sogni e capaci di accedere a una dimensione fuori dal tempo e dalla logica, di oscillare tra la divinazione ermetica e le frasi di senso comune. Le sostiene un accurato tirocinio, molto simile al mestiere delle prefiche che nell’antica Roma venivano incaricate di intonare lodi al defunto durante i rituali funebri. Con la differenza che queste venivano pagate, le lamentatrici di Mani no. Per loro comporre il peana finale è uno strumento di potere. Un dichiarare alto e forte che sono loro le padrone della vita e della morte.

Kalliope a detta di tutti era la più brava. Oggi ha quasi novant’anni e ai funerali non ci va più. Ha speso una vita a piangere, ha esaurito, dice, le lacrime. Inutile chiederle un saggio di prova. Recitare un moïroloi senza cadavere è come volersi ubriacare senza vino. Quasi un sacrilegio. Quando le si chiede di mostrare almeno il gesto delle mani o la postura del busto mentre si canta, guarda l’interlocutore fisso attraverso i suoi occhi velati dalla vecchiaia e non capisce perché si debba scomodare proprio lei, visto che domani, fa sapere, “si farà tanto di quel piangere” per Eleni, morta a soli quarant’anni, lasciando orfani sei figli che non ha fatto in tempo a “sistemare”. Eleni, continua, era di buona famiglia e aveva un marito rispettato. Certo, se a morire fosse stato un uomo aitante e fresco d’anni, o meglio un soldato, oppure un capofamiglia magari più avanti con l’età, ma ancora robusto e bene in vista nella comunità, la perdita sarebbe stata ancora più importante.

Si scopre così che qui esistono esatti parametri per determinare la solennità, il peso, se così si può dire, di un funerale. Le esequie degli uomini sono in testa alla classifica religiosa e mondana. Poi conta l’anagrafe. Il decesso di una donna giovane “pesa” in ogni caso più di quella di un vegliardo malconcio o di un fanciullo che non abbia potuto realizzare un proprio status. Seguono le anziane, gli storpi, gli idioti. In coda si collocano i neonati, mai usciti dalla zona ambigua di passaggio tra l’aldilà e l’aldiqua, mai realmente vissuti.

Kalliope non sa con precisione dove si piangerà Eleni, deceduta in un ospedale di Atene. Abitava da almeno quattro lustri nella capitale, come la maggior parte della gente di qui. I pochi rimasti s’interrogano se i suoi ragazzi, nati e cresciuti in città, la vorranno seppellire nel suolo natale, e sottoporla quindi a un rito pagano da molti oggi considerato anacronistico, isterico, una faccenda di donne. Kalliope non sa, ma “sente” che la veglia ci sarà. Lei è sicura che Eleni tornerà. “Tutti alla fine tornano”, spiega. Ed Eleni è tornata. Il giorno dopo avere esalato l’ultimo respiro.

Ora suona, distante, una campana. Qui anche le sorde odono il suo lugubre messaggio. Il soffio della morte le penetra e le scuote come una vibrazione, vola di bocca in bocca, si spande tra un villaggio e l’altro. Ecco allora che nugoli di figure nerovestite, sempre curve, come sotto il fardello di una sorte impossibile, all’improvviso si sollevano, drizzano la schiena acciaccata dalla fatica nei campi, interrompono le chiacchiere segrete tra i vicoli, sollevano i pugni al cielo in segno di rabbia, e si ritirano per prepararsi all’appuntamento con l’unica dea. Il giorno della cerimonia si levano all’alba e, animate da un’intima eccitazione, si dirigono verso il luogo convenuto per la celebrazione. Indossano i vestiti migliori, cappello in testa, borsetta in mano con dentro l’indispensabile fazzoletto, corvine dalla testa ai piedi. Rammentano le “macchie di lutto rinunciate all’amore” descritte da Fabrizio De André in Disamistade di Anime salve. Sbucano dalle torri di pietra, attraversano la campagna punteggiata di ulivi e fichidindia, e al loro passare altre prefiche ingrossano il corteo.

Basta seguirlo, per sapere dove si piange Eleni. Conduce in una chiesa, la casa di famiglia è chiusa da anni. Alle sei del mattino, il feretro e i fiori ci sono già, portati dai parenti e amici che la notte precedente hanno seguito il carro funebre in pullman dalla capitale. Anche le prime moïroloistres hanno già intonato il lamento. Hanno lasciato scivolare lo scialle dal capo sulle spalle, qualcuna si è sciolta i capelli, di solito stretti in trecce annodate dietro la nuca. Hanno iniziato a tessere il filo del lungo poema di commiato. All’ingresso di ogni nuova venuta nel tempio, il volume delle voci si alza, la disperazione si moltiplica grazie allo stabilirsi di un’ulteriore assonanza. Il pianto diviene tanto più intenso quanto più forte è il legame tra chi si affaccia sul portone e la defunta. Di uomini a quest’ora, in giro non se ne vedono. Sono andati tutti a scavare la fossa al cimitero. Nell’arco di due ore l’ambiente si riempie di un popolo femminile che si scambia abbracci e sussurri intanto che si accomoda sulle panche. Ma dalle panche, sospinte da altri arrivi, le moïroloistres passano a disporsi in un cerchio sempre più stretto intorno alle spoglie, chi seduta e chi no.

Quando le presenti bastano a formare un buon coro, dal gruppo emerge a un certo punto una korifea, la capocoro, colei che lo guida e che dipana il componimento. Inizia lei il resoconto circostanziato della vita e della morte di Eleni. Racconta quanto Eleni fosse bella, buona e onesta, brava cuoca, una moglie e madre esemplare. La chiama corona e colonna del focolare. La sgrida per essersi lasciata vincere dal tumore. Per averla abbandonata. Per avere inflitto un torto tanto grave soprattutto ai suoi figli, e al povero Costantino che l’ebbe in sposa bambina, lui che avrebbe potuto essere suo padre. La implora di cambiare idea. Insiste: “Perché non te non torni finché sei in tempo?”. Rincara la dose: “Tirati su da quel giaciglio sepolcrale, lo sai che questo è il giudizio finale. Ti sei scordata che c’è ancora una cambiale da pagare?”. Poi passa a consolare le sorelle, i fratelli, i familiari intimi. Ogni korifea può tirare avanti mezz’ora, o più, le altre a echeggiare le frasi più significative, aggiungere i tasselli mancanti e a ordire, con moti del corpo e con la tragica voce, la metamorfosi che fa di una morte una “buona morte”, contrapposta alla morte “nuda e silente”, vissuta come pubblica vergogna.

E’ la metamorfosi che spinge Eleni oltre la soglia, come esplicitamente rivendica il verso. La korifea non perde mai una rima, non spezza la cantilena, improvvisa in metrica omerica perfetta, otto sillabe ogni frase, aiutandosi all’occorrenza con intercalari codificati. Non c’è caduta di tensione neanche quando si porta il fazzoletto al naso, si asciuga gli occhi, si batte le nocche sul petto. Il suo è un ruolo fondamentale. Le donne, quel ruolo, se lo disputano. Tutte vorrebbero assaporare l’ebbrezza del potere. La capo-coro si sfinisce, ma non vuole cedere lo scettro. Quando raggiunge l’apice drammatico, le sue vicine le stringono il braccio. Le raccomandano di smettere. “Quietati, riposa, non puoi continuare a reggere tutto questo male”, le bisbigliano, dapprima comprensive. Poi si spazientiscono. Hanno già il verso pronto che urge da dentro e affiora sulle labbra. Colei che finalmente riesce a succederle, subentra nel racconto senza interromperlo ma in tono dimesso. Il ritmo rallenta, diventa una ninna nanna, quindi rimonta in un crescendo lento. Lo scambio si ripete, a turno, per ore. Neanche alle parenti più strette è concesso di abusare del tempo a loro di volta in volta assicurato, poiché nella cultura di Mani al tempo è legata la memoria e la “porzione” di fato di ciascuno. Le donne, che si considerano ambasciatrici del trapassato entrato ormai in uno spazio senza tempo, supreme testimoni e depositarie del suo essere vissuto, quando si scambiano il canto si scambiano in realtà tempo, ricordi, onore e parti di destino.

Ogni tanto qualcuna si alza, esce, controlla la situazione all’esterno, dove le più mattiniere hanno provveduto a sistemare alla bene e meglio il necessario per un rinfresco davanti al sagrato. Poi rientra con una bottiglia d’acqua per le amiche rimaste nel frattempo nel tempio. Avanti e indietro, dentro e fuori: anche in questo modo le donne vanno e vengono tra la vita e la morte. Lo stesso avrebbero fatto se Eleni avesse avuto una casa; si sarebbero spostate tra la cucina e la stanza mortuaria. Lì avrebbero certo potuto rendere meglio onore agli ospiti e offrire, al posto di un bicchiere d’aranciata, un caffè, un liquore, dei biscotti. Avrebbero spostato i mobili per rendere più agevole l’andirivieni e rivolto contro il muro gli specchi che riflettono immagini rovesciate e perciò allusive di profondità ctonie. Avrebbero coperto con drappi le foto-ricordo ma la veglia si sarebbe prolungata, come in chiesa, tra il tremolare delle fiammelle dei ceri e lo scoppio di singhiozzi sullo sfondo della nenia inesorabile delle moïroloistres.

Gli uomini sarebbero comunque arrivati più tardi, non prima delle 11, si sarebbero avvicinati alla bara scoperta, avrebbero baciato la fronte del morto, deposto un fiore sulle sue mani incrociate all’altezza del ventre, esibito un distaccato autocontrollo. Poi avrebbero lasciato, senza interferire, le donne al loro lavoro. Si sarebbero ritirati nel cortile a discutere e a fare la colletta per coprire le spese del funerale.

Casa o chiesa, l’ultimo a presentarsi sulla scena è il prete, un “esterno”, esponente massimo dell’autorità maschile, chiamato a svolgere una funzione né più né meno di quella di un funzionario dell’erario che riscuota le tasse. Al suo arrivo il canto s’impenna: è il segnale dell’imminenza della separazione irreparabile. Con il suo sfarzoso abito talare e la boccetta dell’acqua benedetta, lui viene solo per portarselo via, quel corpo tanto prezioso quanto privo di vita. All’ordine di sigillare il feretro, il canto si fa urlo violento. A placare le anime disperate compaiono gli uomini, chiudono la bara e se la caricano in spalla. Se la veglia si è svolta in una casa, la trasportano fino alla chiesa della parrocchia per il rito religioso. Là nessuno fiata. Le donne, che per una mattina intera si erano sgolate, preferiscono starsene il più lontano possibile dall’altare. In prima fila restano solo i congiunti e chi è venuto per un atto doveroso di partecipazione. La messa dura circa mezz’ora, dopodiché si forma la processione verso il campo santo, avanti la bara e dietro gli altri. Gli uomini accelerano il passo: come il prete, hanno fretta di sbrigare il deprimente affare della sepoltura con meno lagne possibili. Fosse per loro, percorrerebbero sempre quel tratto – per quanto breve – in automobile. Tra loro, le prefiche incedono a gruppetti, stringendosi intorno alla vita e riprendendo a cantare sommesse. Il pianto si innalza ancora straziante, un grido, prima di calare il feretro nella tomba, quando la bara viene nuovamente scoperta e gli astanti depongono accanto alla salma alcuni oggetti che erano cari all’estinto e che potrebbero risultargli utili durante il “viaggio”. Viene anche versato un bicchiere d’olio, uno di vino e un pugno di terra amalgamata con l’acqua.

A questo punto si è sicuri di avere fatto tutto quello che garantisce la “buona morte”. Chi resta non deve più rimproverarsi niente. E’di nuovo tempo di tornare a vivere da esseri in carne e ossa e a separare la terra dai sassi. Non prima però di avere “perdonato” subito chi se n’è andato per sempre, consumando un pranzo a base di legumi e pesce. Così, a Mani, si comincia a colmare il vuoto creato dalla sua assenza.

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Portfolio – Martina Biasetti, Terre d’Acqua

Di Barbara Silbe

Sensazioni intime, primordiali, affiorano vibrando da queste immagini i cui protagonisti, oltre ai soggetti, sono gli elementi del Creato: acqua, vento, terra… Da loro sembra trarre energia ogni cosa inquadrata, ogni rappresentazione che l’autrice mette in scena sul suo palcoscenico. Le due protagoniste di questa storia sembrano cercare una connessione profonda con ciò che le circonda, per radicarsi nella realtà fisica, tangibile, e fondersi con l’universo in un equilibrio permanente. Nell’acqua si immergono, dal vento si fanno avvolgere, e calpestano il terreno in cerca di una strada che le conduca. Come nelle celebri quattro Allegorie di Jan Bruegel (due delle quali conservate alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, le altre due al Museo del Louvre), esseri umani e animali convivono in un Paradiso pittorico molto vario.   Accenna alla spiritualtà, all’essenza stessa della vita, la fotografia di Martina Biasetti, passando da metafore che alludono alla consapevolezza che ogni manifestazione della natura sia già parte del nostro essere.  Anche nella scelta di affiancare due scatti e creare questi dittici delicati, l’artista rimanda al dialogo tra noi e il luogo che ci ospita, quasi che, parlandosi così profondamente, si possano curare molte ferite.

 

“Sofia oscilla nelle acque. Le acque sono verdi smeraldo e riflettono la natura viva e traboccante che le sovrasta. Sofia galleggia serena nelle acque che la circondano, la sorreggono, la spingono e la respingono in un candido gioco di dolce abbandono. Poi, nel buio dietro le quinte, c’è Ofelia, circondata da un corpo liquido, pesante e opprimente, che lentamente la avvolge e la inghiotte. La morte di Ofelia non è mostrata in scena. È sola, lontana dalle luci del palcoscenico, dagli applausi e dalla vita mondana. Sott’acqua, dietro un velo, nel silenzio, Ofelia guarda il vuoto; vittima delle oscillazioni ingannevoli di quell’acqua verde smeraldo, o forse vittima di ingenuità e del suo essere donna, vittima della sua stessa morte che dall’ oscurità, la vede presente e sulla bocca di tutti solo nel momento della sua assenza”.

(Martina Biasetti)

 

 

Note biografiche

Martina Biasetti è un’artista nata a Parma nel 1983.

Ha studiato Belle Arti scegliendo la carriera d’artista come professione.

La fotografia di Martina nasce dal bisogno di aprire lo sguardo oltre l’ordinaria realtà che ci circonda, cercando di catturare la sfuggente poesia del quotidiano, in quei momenti vissuti nella sua vita di donna, di madre e d’artista.

Ne nasce una produzione artistica intima e personale, nella quale l’immagine poetica è messa in stretto rapporto con la realtà.

La natura, sempre presente nelle sue fotografie, si affianca all’essere umano, si fonde con esso, fino a inondarlo, in una visione estremamente romantica quanto familiare.

Martina ha cominciato la sua attività espositiva nel 2007, classificandosi come vincitrice e finalista in varie collettive.

Il suo lavoro è apparso in diverse pubblicazioni e collaborazioni.

Attualmente vive e lavora a Parma.

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Portfolio – Claudia Benevento, Chiama quando vuoi

Il progetto di Claudia Benevento nasce dall’esercizio (e dalla necessità), di indagare se stessa attraverso il racconto di un fatto intimo, personale. Ci parla dell’assenza incolmabile con la quale convive da sempre:  la perdita del padre quando era una bambina. Una figura rimasta importante, una presenza mantenuta viva da un dialogo tra loro che lei ha continuato ad alimentare. Claudia in questa serie si è immaginata di telefonargli, alternando autoritratti tristi e sorridenti, immagini del passato e oggetti recuperati oggi che sembrano uscire da quelle vecchie fotografie. La cornetta di quello stesso telefono anni Settanta, una macchina da scrivere… reperti che l’autrice ha cercato per rafforzare la sua narrazione e rimasti a ricordarle chi fosse quell’uomo tanto amato. Tra flashback e dissolvenze, riflette sulle relazioni familiari e prova a conservare la memoria che lei stessa ha del genitore, ridonandogli una forma fisica reale. La presenza del padre vive in lei, e in questa serie sospesa nel ricordo che è riuscita a concettualizzare.

 

CIAO Papà

Mi chiedo spesso perché sei dovuto andar via all’improvviso, lasciandomi sola ad affrontare questa vita, senza la tua stretta e i tuoi sorrisi rassicuranti, senza la tua presenza importante, senza il tuo amore.

Sono passati 30 anni da quando la vita mi ha imposto questa sottrazione, ma io ti porto sempre con me, nei momenti felici e in quelli bui.

Ti percepisco, sento la tua vicinanza, il vento mi porta la tua voce, le tue parole mi arrivano con l’intenzione di rimarginare il dolore della tua assenza, facendomi vivere questo amore senza fine.

Sento che siamo legati profondamente.

TI VOGLIO BENE PAPA’

CHIAMA QUANDO VUOI

MI MANCHI

SEMPRE

 

TUA CLAUDIA

 

Note biografiche

Mi chiamo Claudia Benevento, ho 35 anni, sono nata a Vimercate e da sempre vivo a Cornate d’Adda (MB). Mi sono diplomata all’Istituto Statale d’Arte di Monza dove ho potuto studiare fotografia e cinema. Dopo il diploma ho fatto svariati lavori non inerenti all’arte, ma dopo poco tempo ho capito che la mia più grande passione è la fotografia. Così, in parallelo al mio attuale lavoro, ho iniziato a seguire corsi di fotografia presso diversi enti, appassionandomi sempre più e capendo dentro di me che fotografare mi fa stare bene.

Contatto Instagram : @claudia_benevento